L’asilo di Reina

A La Guardia, nella piana pre-amazzonica, un esempio di solidarietà nato dal coraggio di voler rispondere al disagio.
Reina Gutierrez

Si chiama La Guardia la cittadina dove abitano Reina e Jorge con la loro famiglia, a venti chilometri da Santa Cruz, la città emergente boliviana. Il centro della cittadina è pulito, decoroso, una piazza alberata su cui si affacciano gli edifici della parrocchia e del comune.

 

La casa di Reina e Jorge Gutierrez sorge accanto a un edificio curato e di dimensioni ragguardevoli che intuisco subito essere l’asilo di cui mi avevano tanto parlato degli amici comuni. Sorbendo un succo di mela comincio ad ascoltare dapprima con curiosità, poi appassionato, il racconto della padrona di casa. Reina accenna al fatto di essere diventata sensibile alle sofferenze dei bambini già all’età di sei anni, quando lei stessa, bambina orfana di madre, fu messa assieme al fratellino in un istituto a Vallegrande, la città dove era appena morto Che Guevara. Passa poi, senza soluzione di continuità all’intuizione dell’asilo, avuta assieme a un volontario AFN italiano presente in Bolivia: «Non c’era nulla, ma eravamo nelle condizioni migliori per credere alla provvidenza di Dio». Mi spiega come in Bolivia, Paese di povertà e desolazioni, la concretezza della solidarietà sia obbligatoria: «Poter mostrare che l’ideale dell’unità cambia radicalmente le persone mi sembra un contributo specificamente boliviano all’evangelizzazione». Cioè, se vedi credi che l’unità voluta da Gesù è possibile; se non lo vedi, no.

 

«Non basta la buona volontà nella vita – prosegue –, ma serve anche la competenza. Mi sono così iscritta a psicopedagogia nel momento in cui avevamo intuito che avremmo potuto metter su un asilo». E così si è laureata in quattro anni, periodo nel quale prima progettò e poi costruì l’asilo, completato nel 2008 e poi inaugurato alla presenza di tante autorità, e dei suoi vicini.

 

Nel frattempo le narici vengono sollecitate da un invitante profumo di pane fresco. La donna si accorge della mia sorpresa, e senza aggiungere altro mi invita a seguirla: nella corte della sua casa, sta una casetta piccola e ancora grezza, priva di intonaco. È lì che Reina, avendo bisogno del pane per i 120 bambini dell’asilo, ha inventato anche un panificio, modesto ma efficientissimo, che ha riempito con macchinari provenienti da donatori dalla Spagna e curati ora da un’équipe affiatata, composta da dona Esperanca, da Carlito, un bimbo di nove anni che dà una mano, da suo figlio Daniel, che di anni ne ha 18, e da una giovane ragazza di 15 anni, che lavora al panificio e studia la sera.

 

Dall’asilo giunge l’eco di bimbi e di giochi. I locali mi appaiono subito pulitissimi e ben progettati. Le maestre intrattengono i bambini delle varie età, dai due ai 10 anni, con solerzia e con un pizzico di anarchia che non guasta. Inventano giochi coi palloncini colorati, distribuiscono la merenda come fosse un’avventura d’esplorazione. Ogni bambino ha una sua storia di povertà ed emarginazione, di alcolismo e infedeltà, di eroismo. Storie da non credere.

 

In un locale trovo due donne intente a cucire. Pure una sartoria, s’è inventata Reina! C’è Rita, che ha sette figli, che fa la maestra, e che viene qui nei periodi di riposo. Ed Elisa, che invece è stata abbandonata dal marito e che qui si è sottratta alla depressione. Reina è così: vedendo singoli casi in difficoltà s’inventa soluzioni adeguate.

 

L’ufficio di Reina è ingombro di libri giunti dai Paesi ispanofoni. Qui la donna fa pure terapia ai bambini con difficoltà d’apprendimento. E per finire mi spiega il complicato finanziamento dell’asilo: contributi comunali, collaborazione con ong, soprattutto le adozioni a distanza di Azione per Famiglie Nuove (che hanno permesso il sostentamento dell’asilo dall’avvio fino ad oggi), senza dimenticare i contributi dello Stato per l’alimentazione, la quota di 1,20 bolivar al giorno (10 centesimi di euro) chiesta ai genitori dei bambini, questione di mantenere dignità e partecipazione. Tutti coloro che lavorano all’asilo o nelle attività connesse ce la mettono tutta per «provocare la provvidenza».

 

Campeggia una frase sotto una fotografia di Chiara Lubich: «Essere sempre famiglia», c’è scritto. «Questa frase l’ho fatta mia – conclude Reina –, lavoro ogni giorno perché i bambini qui possano sempre trovare uno spazio di famiglia». Quasi per lenire una ferita che viene da lontano. Nel suo cuore.

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