L’Asia e il funerale della regina Elisabetta

Molti gli invitati illustri in rappresentanza dei loro Paesi (esclusi solo 6, di cui 2 asiatici: Afghanistan e Myanmar) al funerale più seguito del mondo, quello della regina Elisabetta II. In Asia molti hanno anche parlato e scritto sulla gemma incastonata al centro della corona britannica, il famoso diamante Koh-i-noor, emblema di un colonialismo di cui in Occidente si ha ancora scarsa coscienza
Corona Regina Elisabetta (Mark Large/Pool Photo via AP)

Neppure al funerale della regina Elisabetta II si è trovato un rispettoso silenzio, una pausa, nelle dispute internazionali. Anch’io ho ammirato le splendide riprese ed i colori del funerale, la storia che traspariva dalle uniformi e dal cerimoniale, e la gente assiepata lungo il percorso.

Ma un particolare mi ha profondamente colpito: i tre simboli della regina, il globo, lo scettro e la splendida corona, alla fine della cerimonia sono stati tolti dalla bara. Come a dire: nella tomba, non portiamo quanto abbiamo avuto in questa vita, perderemo tutto.

C’erano tutti i regnanti del mondo a Londra: grandi e piccoli. E rappresentanti di tutti gli stati che hanno rapporti con il Regno Unito. C’erano gli invitati ma anche gli esclusi, perché questi ultimi, in definitiva, hanno fatto forse più notizia dei presenti. Parlo dei Paesi non invitati alle esequie ufficiali della regina più longeva del mondo.

Essere esclusi da un evento del genere, di portata mondiale (si calcolano 4,5 miliardi di persone che vi hanno assistito) aveva il chiaro intento di bollare come nemici (almeno del mondo Euro-Atlantico) i non invitati. Solo 6 sono stati gli esclusi a livello mondiale: Russia, Bielorussia, Siria, Venezuela e, tra i Paesi asiatici, Afghanistan e Myanmar.

Perfino Iran e Cina erano presenti, anche se non sono stati invitati i leader politici. Uno dei grandi esclusi asiatici è stato il generale Min Aung Hlaing, del Myanmar, che dal 1 Febbraio 2021, in barba a tutte le sanzioni internazionali, continua a guidare la sua personale repressione contro il proprio popolo, che non aveva scelto lui e i militari che rappresenta, ma Aung San Suu Kyi e la libertà di scegliersi un futuro con le proprie mani.

Un futuro lontano dal generale e dai suoi addetti, gente avvezza ad uccidere, spietata, violenta e crudele. Come definire un leader che spara sulla propria gente, uccidendo più di 2 mila cittadini, imprigionandone 15 mila e mettendone in fuga milioni nelle foreste? Ed a sparare sulla gente sono i militari stessi del Myanmar, che usano prevalentemente armi russe.

Sarebbe però ingiusto e superficiale, a questo punto, tracciare una linea di demarcazione tra buoni e cattivi. Io preferisco adottare la linea che papa Francesco ha chiaramente espresso alla conferenza stampa di ritorno dal Kazakistan: il dialogo, anche con coloro che si chiudono, che non vogliono dialogare. Almeno tentare: una, cento, mille volte. Perché se inizia un dialogo c’è possibilità di compromesso; ma senza dialogo tutto è perduto.

Certo, anche l’Occidente non è certo “un bambino della prima comunione” (espressione usata da papa Francesco) per purezza e innocenza.

Un piccolo ma pesante esempio tra i tanti che si potrebbero portare, è la vicenda del famoso diamante Koh-i-noor (montagna di luce), incastonato nella corona usata da Elisabetta II. Una gemma originariamente di 186 carati (attualmente 105), scoperta nel XIII secolo nel sud dell’India e che fu mandata in Inghilterra come bottino di guerra a metà del XIX secolo.

In questi giorni si è parlato e scritto molto in Asia su questo diamante legato a quattro Paesi: India, Pakistan, Iran e Afghanistan. Tutti e quattro ne reclamano la proprietà.

La “montagna di luce” è uno dei tanti simboli dell’imperialismo britannico e tale viene ancora oggi percepito in giro per il mondo. Il diamante arrivò, dopo essere passato dalla Persia e dall’Afghanistan, nelle mani di un sikh, il maharaja Ranjit Singh, nel 1813. Il maharaja Duleep Singh, figlio e successore di Ranjit, riuscì a tenersi stretto il diamante fino all’annessione da parte dei britannici del Punjab, nel 1849. Duleep, all’epoca soltanto undicenne, firmò il trattato di resa a Lahore, in Pakistan: vi era anche scritto, tra l’altro, che Duleep avrebbe inviato il diamante come regalo (in realtà contro la sua volontà) alla regina Vittoria.

Molti in India, Pakistan, Iran e Afghanistan, in questi giorni di lutto per gli inglesi, hanno riempito i social di commenti e di richieste di far tornare il famoso e prezioso Koh-i-noor (si parla di un valore di 400 milioni di dollari) in Asia. Al di là delle pretese, però, una cosa sembra certa: bisogna cominciare probabilmente a chiedere scusa per quanto si è fatto in passato e aggiungere fatti concreti alle parole.

Papa Francesco ha detto durante il suo recente viaggio in Canada: “Provo vergogna per il male commesso da tanti cristiani colonialisti”. E rivolgendosi ai nativi a Maskwacis, ha espresso cosa significhi per lui chiedere perdono: «Giungo nelle vostre terre natie per dirvi di persona che sono addolorato, per implorare da Dio perdono, guarigione e riconciliazione, per manifestarvi la mia vicinanza, per pregare con voi e per voi».

Francesco ha aggiunto: «Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme, perché le sofferenze del passato lascino il posto ad un futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione».

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