Se The Donald si muove, vuol dire che ci sono dei grossi interessi in gioco. Le formule brevi non sempre sono esplicative di un dato evento, ma questa volta appare chiaro che il presidente Usa ha voluto “rafforzare il fronte degli amici” per arrivare all’incontro con l’omologo cinese da una posizione più forte, o meno debole, di quella di partenza.
Il viaggio, iniziato in Malesia, ha avuto come primo obiettivo la partecipazione al vertice dell’Asean, cioè l’Associazione delle nazioni del sudest asiatico. Nella prima tappa in Malesia, Paese che ondeggia tra Pechino e Washington, Trump nella sua lunga rincorsa al Nobel per la pace ha voluto presiedere la firma dei cosiddetti “Accordi di pace di Kuala Lumpur”, costringendo i due belligeranti, Cambogia e Thailandia, a firmare un cessate il fuoco duraturo. Sempre in Malesia, l’amministrazione Trump ha annunciato diversi accordi commerciali con la stessa Malesia e con la Cambogia, mentre coi thailandesi ha annunciato intese sui “minerali critici”, volti a diversificare le catene di approvvigionamento globali.
La seconda tappa del presidente Trump si svolge in Giappone (27 e 28 ottobre), concentrata sul rafforzamento dell’alleanza tra i due Paesi e sulla finalizzazione di importanti accordi economici. L’incontro ha così portato, analogamente a quanto annunciato con la Thailandia, a un accordo sui “minerali critici” e ha cementato un’intesa da 550 miliardi di dollari in investimenti giapponesi negli Stati Uniti. Questi accordi mirano, nelle parole del presidente Usa, a rafforzare «la sicurezza delle catene di approvvigionamento» e «a promuovere l’occupazione statunitense». Naturalmente, Trump ha ribadito che «il Giappone è un alleato degli Stati Uniti ai massimi livelli», consolidando quindi il legame strategico tra i due Paesi in vista dell’incontro con XI Jinping. I colloqui hanno toccato materie di sicurezza, visto che anche il Giappone sta portando la spesa per la difesa al 2% del Pil.
L’attenzione si sposta ora sulla Corea del Sud, dove il presidente statunitense parteciperà al vertice della Cooperazione economica Asia-Pacifico, l’Apec, che si tiene a Gyeongju. Il momento clou del viaggio è ovviamente l’atteso incontro con il leader cinese Xi Jinping, che dovrebbe essere il primo faccia a faccia tra i due leader più potenti del mondo dalla rielezione di Trump. I colloqui con Xi Jinping sono cruciali per disinnescare le rinnovate tensioni commerciali, con l’obiettivo di portare a casa un accordo – che sia definitivo o preliminare lo si vedrà − sui dazi, i “minerali critici” e sull’acquisto di soia a stelle e strisce da parte della Cina. Lo stesso Trump ha pure sollevato la possibilità di discutere con Xi questioni relative al Fentanyl, la droga chimica che è diventata un’ossessione per il presidente Usa, e persino l’ipotesi di un nuovo incontro con il leader nordcoreano Kim Jong-un. Si vedrà, le sorprese con The Donald sono all’ordine del giorno.
Il tour è un chiaro segnale dell’impegno degli Stati Uniti nella regione indo-pacifica, viaggio che ha una forte valenza politica pur apparendo focalizzato su accordi economici bilaterali e sulla sicurezza. Sullo sfondo, non detta, incombe la questione della leadership politica sull’Estremo Oriente, che attualmente è saldamente nelle mani di Pechino, ma che Washington sa bene dover perseguire, visto che l’asse politico-economico del mondo si è da tempo spostato dall’asse atlantico a quello pacifico.
La questione di Taiwan non è in agenda, ma senza dubbio, direttamente o indirettamente, i due politici ne parleranno. E non è detto che, seppur tacitamente, Trump non sia disposto a sacrificare l’isola taiwanese sull’altare di un accordo commerciale globale. Accordo che alla fine potrebbe rivelarsi di difficile digestione da parte degli europei (e dei sudamericani, e in misura minore degli africani), su cui potrebbero ricadere sia le aggressive mire commerciali cinesi, sia l’“America First” di Trump. Ma questo è un altro discorso, una potenziale molla verso una guerra dei dazi globale.