L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori: un estremo baluardo dei diritti oppure una norma ormai fuori tempo oppure ancora un freno agli investimenti?

Avv. Emmanuele Serlenga

 

Un tema “caldo” che periodicamente si ripresenta agli onori delle cronache è certamente rappresentato dall’art. 18 della Legge 300/70 (meglio nota come “Statuto dei Lavoratori”).

Per descrivere meglio tale norma, e la sua effettiva portata, merita partire da quello che è nel diritto italiano il principio generale in tema di licenziamenti, ossia il disposto dell’art. 1 della Legge 604/1966:

si può licenziare soltanto in  presenza di giusta causa o di un giustificato motivo, soggettivo oppure oggettivo.

Inoltre, l’art. 2118 del codice civile sancisce il principio secondo cui sia il lavoratore che il datore di lavoro che vogliano recedere da un contratto di lavoro, sono obbligati alternativamente a garantire un periodo di preavviso (previsto dalla contrattazione collettiva per ciascuna categoria di lavoratore tenendo conto normalmente di livello ed anzianità di servizio) oppure a pagare un’indennità pari alla retribuzione che sarebbe spettata per l’intero periodo di preavviso.

 

Per giusta causa di licenziamento (art. 2119 Codice Civile) si intende un comportamento talmente grave da minare per sempre in modo irreparabile l’elemento fiduciario che deve caratterizzare il rapporto di lavoro, sì da non consentire nemmeno lo svolgimento del periodo di preavviso.  A titolo esemplificativo, sono state considerate giusta causa di licenziamento: emissione di assegni a vuoto, condanna per ricettazione di un lavoratore bancario, violenza o minaccia grave a datore di lavoro, furto sul luogo di lavoro, ecc. Il lavoratore licenziato per giusta causa non può accedere all’indennità di disoccupazione.

 

Si considera giustificato motivo soggettivo di licenziamento (art. 3 Legge 604/66) un comportamento che lede sì l’elemento fiduciario datore-lavoratore, ma in maniera meno grave, in modo tale da consentire lo svolgimento del periodo di preavviso o (come normalmente capita) il pagamento della relativa indennità. Il caso più comune è lo scarso rendimento, ma spesso capita che furti o minacce di piccola entità vengano derubricate da giusta causa a giustificato motivo oggettivo, vista la differenza spesso labile che c’è tra le due fattispecie (con la conseguenza che il datore è tenuto a corrispondere l’indennità di mancato preavviso ed il lavoratore può ottenere il trattamento di disoccupazione).

Un caso peculiare di licenziamento per giustificato motivo soggettivo è costituito dal c.d. licenziamento per superamento del periodo di comporto, ossia per il superamento del periodo in cui il lavoratore malato ha diritto alla sospensione del rapporto di lavoro per malattia (l’art. 2110 del Codice Civile ne demanda la durata alla contrattazione collettiva).

 

Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 3 Legge 604/66) consiste invece in ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Nel gergo corrente questo tipo di licenziamento si chiama “per crisi aziendale” o “riduzione personale” e si intuisce come sia una fattispecie complessa, in quanto deve contemperare due diritti entrambi sanciti a lettere d’oro dalla Costituzione: quello al lavoro e quello alla libertà di impresa. Un’analisi di come la giurisprudenza ha agito sin qui porterebbe eccessivamente lontano.

Ciò che importa è che non corrisponde al vero quanto sostenuto da alcuni secondo cui difetterebbero in capo all’imprenditore in crisi gli strumenti per licenziare: c’è eccome il giustificato motivo oggettivo.

Senza dire che esistono procedure particolari, specialmente per le imprese di grosse dimensioni, come il licenziamento collettivo, cassa integrazione e mobilità (in massima parte disciplinate dalla L. 223/91) che già si fanno carico del problema.

Da segnalare infine che in un eventuale giudizio l’onere della prova circa la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento (e se si tratta di giustificato motivo oggettivo, anche dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni) grava unicamente sul datore di lavoro.

 

Quali le conseguenze del licenziamento avvenuto senza giusta causa o giustificato motivo?

Esse variano secondo le dimensioni e la tipologia dell’impresa.

Se l’impresa occupa un numero di dipendenti superiore a 15, si applica l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, pertanto il Giudice, qualora accerti l’illegittimità del licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (c.d. stabilità reale del posto di lavoro) e condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal dipendente, liquidando un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (nonché al  versamento dei contributi previdenziali); in ogni caso la misura dell’indennità non potrà essere inferiore a cinque mensilità. È facoltà poi del datore di lavoro invece della reintegrazione, la corresponsione di un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità che si aggiunge a quanto dovuto a titolo di risarcimento.

Come si vede, una condanna ex art. 18 L. 300/70 può costare molto cara al datore di lavoro.

Bisogna precisare infatti che, come dice la norma stessa, «reintegrazione significa che il rapporto di lavoro si considera come mai interrotto, con diritto in capo al lavoratore reintegrato di ricevere non solo le retribuzioni, ma anche i contributi relativi al periodo non lavorato».

Tuttavia nella quotidianità avviene che questo tipo di lite venga la maggior parte delle volte transatto: il datore transige normalmente per il timore delle conseguenze economiche di un’eventuale sentenza negativa ed anche di dover reintegrare un lavoratore con cui il rapporto era evidentemente logoro; dal canto suo il lavoratore transige spinto da un lato dal principio dei c.d. soldi “pochi, maledetti e subito” che spesso è ancora più stringente per chi in quel momento è disoccupato, dall’altro dalla poco allettante prospettiva di riprendere una postazione lavorativa in cui evidentemente non sarebbe gradito.

Inoltre, come già detto, non tutti i lavoratori possono fruire di tale tutela: ne è escluso ad esempio chi lavora per organizzazioni di tendenza, i soci lavoratori di cooperativa sociale (in base all’art. 2 della Legge 142/01) e soprattutto chi lavora in imprese che occupano un numero inferiore a quindici dipendenti.

Con un’unica eccezione: il licenziamento discriminatorio, ossia quello «determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali»: esso «è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata» (art. 4 L. 604/66). L’art. 3 della Legge 108/90 completa il principio, disponendo che il licenziamento discriminatorio, oltre ad essere nullo, comporta sempre la tutela prevista dall’art. 18 Legge 300/70, a prescindere dalla presenza o meno di quindici dipendenti.

Ai lavoratori esclusi dalla sfera di applicazione di cui all’art. 18 L. 300/70 non rimane che la tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 L. 604/66, ossia l’alternativa tra la riammissione in servizio (diversa dalla reintegrazione perché opera dal giorno della sentenza, non retroagisce al momento del licenziamento come invece fa la reintegrazione) e (come solitamente avviene) il risarcimento, che si liquida in un’indennità compresa tra le 2,5 e le 6 mensilità (a discrezione del Giudice).

 

In conclusione, è opinione di chi scrive che:

                è quantomeno esagerato, data la sua marginalità di applicazione, sostenere che sia l’art. 18 Legge 300/70 a frenare gli investimenti imprenditoriali in Italia (lo sono probabilmente molto di più la realtà burocratica e soprattutto fiscale);

                è dato fattuale errato che l’azienda in crisi in Italia sia costretta dalla Legge a mantenere l’orpello di un lavoratore in esubero (come si è visto, soccorre il giustificato motivo oggettivo);

                è sotto gli occhi di tutti che il problema italiano non sia tanto il mercato di lavoro in uscita quanto quello in entrata;

                è d’altra parte anche non del tutto esatto sostenere che un’abolizione o alcuni limiti di applicazione dell’art. 18 Legge 300/70 limiterebbe la libertà sindacale, dal momento che sarebbe comunque tutelata dal divieto di licenziamento discriminatorio e da tutta una serie di altre norme dello Statuto dei Lavoratori (si pensi all’art.  15 che vieta atti discriminatori in genere, all’art. 17 che vieta al datore di lavoro di costituire sindacati di comodo, fino all’art. 28 che vieta la condotta antisindacale); tuttavia è altresì vero che è più facile dimostrare in negativo l’insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, che non, in positivo, di una discriminazione.

Sembra dunque, almeno a noi, che si stia assistendo più a una prova di forza muscolare di ciascuna parte (Governo – Confindustria – Organizzazioni Sindacali) che non a un serio tentativo di risolvere i numerosi problemi relativi alla realtà del lavoro in Italia.

Inoltre, non può tacersi come, a fronte di una realtà oggettivamente difficile per il nostro Paese, il Governo stia rispondendo (beninteso, in questa materia) al momento soltanto con la proposta di una contrazione dei diritti della parte più debole del rapporto. Che ciò sia la soluzione dei mali italiani è lecito dubitarne.

  

Per chi volesse approfondire ulteriormente l’indubbiamente interessante argomento, si consiglia la seguente bibliografia:

M. Biagi, Istituzioni di diritto del lavoro, Milano 2002;

G. Giugni, Diritto sindacale, Bari 2002;

E. Ghera, Diritto del lavoro, Bari 2002;

A.N. Grattagliano, Il licenziamento individuale, in AAVV Il rapporto di lavoro subordinato, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino 2004, pp. 1717ss.

M. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, III edizione, Padova 2006;

F. Carinci – R. De Luca Tamajo – P. Tosi – T. Treu, Diritto del lavoro. Vol. I: diritto sindacale (V edizione, Torino 2006) Vol. II: rapporto di lavoro subordinato (V edizione, Torino 2010);

F. Del Giudice – F. Mariani – F. Izzo, Diritto del lavoro, XXV edizione, Napoli 2009;

M. Roccella, Manuale di diritto del lavoro, IV edizione

 

 

Emmanuele Serlenga – Avvocato del Foro di Torino

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