Nel 1956 usciva negli Stati Uniti il testo probabilmente più celebre dello psicoanalista e sociologo Erich Fromm: The art of loving, “L’Arte di Amare”.
Nella traduzione italiana, il primo capitolo si apre con un incipit che riassume in sé lo spirito di tutto il libro: «È l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza».
Fromm libera la concezione dell’amore da tutti i riferimenti fisici e metafisici che lo appesantivano, per ricondurlo a dimensioni più umane: la libertà, la scelta, la costanza di costruire ciò che si ha scelto. Presupposto fondamentale per tutte è però la conoscenza, come Fromm stesso fa dire a Paracelso in esergo al libro: «Colui che non sa niente, non ama niente».
L’amore per Fromm è quindi frutto di un impegno costante, a sua volta dovuto a una scelta, compiuta in piena libertà, con la consapevolezza di chi siamo e dei condizionamenti che operano in noi. L’amore, quindi, è un’arte, e come tale può essere appreso.
Si può dire lo stesso dell’odio? Ma soprattutto: chi è colui che odia? Chi online scrive insulti, augura la morte, offende chi è più debole, minaccia, è una persona cattiva, malvagia? È quindi “intrinsecamente diverso da noi”, da me che scrivo o voi che leggete?
Guardandoci attorno sperimentiamo l’odio in modo talmente pervasivo da considerarlo ormai un’entità naturale, un marchio di fabbrica dell’essere umano. Si manifesta attraverso discriminazione, pregiudizio, conflitti, diffusione appunto di messaggi rancorosi e violenti online.
Tuttavia, nemmeno odiare è connaturato alla natura umana. In un certo senso, anch’esso è un’arte, perché si apprende. Ma a differenza dell’amore, non presuppone conoscenza e, quindi, nemmeno libertà.
Albert Bandura, uno psicologo canadese-americano molto noto per la sua teoria dell’apprendimento sociale, ha studiato per anni il modo in cui l’odio e le azioni aggressive possono essere apprese in funzione dell’osservazione di modelli di comportamento e sociali. Bandura codifica tali dinamiche psicologiche riunendole sotto il termine di “disimpegno morale”, ovvero l’insieme di molteplici strategie cognitive volte a giustificare o attenuare l’impatto di azioni moralmente discutibili, permettendoci di mantenere protetta l’immagine positiva che abbiamo di noi stessi.
Il disimpegno morale, in sintesi, è una strategia psicologica implicita che ci permette di ridurre la dissonanza cognitiva data dal contrasto “io sono buono” e “ho appena insultato una persona”. Lo fa al fine di preservare l’autostima, fornendo una giustificazione psicologica per il proprio odio.
Bandura racchiude questi, numerosi, meccanismi di disimpegno morale in tre gruppi: ridefinizione della colpa, rivalutazione delle conseguenze dell’azione e rivalutazione della vittima.
Nel primo caso, si usa la giustificazione morale per ridimensionare le azioni negative, come l’uso della libertà di espressione per scusare i commenti d’odio, oppure mascherando la gravità dei commenti attraverso un etichettamento eufemistico («è solo un commento a un post, mica ho sparato»).
Nella (ri)valutazione delle conseguenze dell’azione, si attribuisce la responsabilità delle azioni a un terzo esterno o a un’autorità che ha istigato all’odio, negando in un certo senso la propria responsabilità individuale e permettendo a sé stessi di considerare meno gravi le conseguenze del proprio contributo d’odio.
Rivalutazione della vittima significa deumanizzarla, descrivendola come un animale, un oggetto, oppure un essere umano di categoria inferiore, e quindi meno meritevole di compassione. In questo modo è più facile attribuire la colpa dell’odio sulla stessa vittima, convincendosi che ciò che riceve sia meritato.
Chi utilizza tali modalità comunicative non è un sadico o un malvagio. Potremmo dire, tornando a Fromm, che è piuttosto qualcuno che non pensa, nel senso che non è nel momento dell’azione consapevole delle dinamiche implicite che agiscono in lui o in lei. L’odio viene da persone normali; intrappolate però, anche solo momentaneamente, in una condizione di alienazione e mancanza di autenticità.
Essere consapevoli che bene e male, amore e odio, non “capitano” né fanno parte di una natura umana malvagia o benevola, ma sono piuttosto il risultato di precise dinamiche relazionali e sociali, ci rende più liberi, ma anche più responsabili. Significa ammettere a noi stessi, nuovamente, che l’amore non è scontato, bensì un’arte: richiede sforzo, e saggezza.
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