L’arrosto di Orson

Giuseppe Battiston restituisce tutto il peso di una figura mitica del cinema e del teatro. Welles appunto.  
L'arrosto di Orson

Un omaggio all’insegna della graticola. Orson Welles’ roast è un arrosto cucinato all’anglosassone, cioè una presa in giro affettuosa. Cuoco dell’operazione Giuseppe Battiston. Trucco, movenze lente, sigaro in bocca, voce pigra e, soprattutto, quella stazza corpulenta
avvolta in un accappatoio bianco che restituisce tutto il peso di una figura mitica del cinema e del teatro. Welles appunto.

 

L’immedesimazione è stupefacente. Attraverso la raccolta di interviste, aneddoti e libere invenzioni, l’attore veneto imbastisce un testo esilarante, a tratti affettuosamente acido, incarnando una dimensione fragilmente umana del regista, attore e scrittore americano. Ne viene fuori quel personaggio scomodo all’interno dello star-system hollywoodiano che non risparmiava invettive a produttori e sponsor.

 

Emergono i segreti della sua tecnica e l’artista geniale che a soli 25 anni creò quel capolavoro che è Quarto potere; seminò il panico a New York annunciando alla radio l’invasione dei marziani; mise in scena, indebitandosi, un’edizione storica di Macbeth con duecento attori neri; e quel sogno irrealizzato di fare il prestigiatore. Emerge molto altro ancora in questo monologo che
ha bisogno solo di due bauli trasformabili, di un panino per parlare del cibo e di una melanzana con dei bastoncini conficcati per evocare la storia degli alieni. Il resto della scena la riempie Battiston.
Al teatro India di Roma.

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