L’anima buona di Sezuan

L'anima buona di Sezuan

La bontà, diceva Brecht, è naturale per l’uomo. La crudeltà richiede un intenso sforzo. Ma troppo spesso, in un mondo come il nostro, «la bontà costa cara». Non è un’opera “militante”, L’anima buona di Sezuan dello scrittore tedesco. E forse per questo continua a parlarci. Quanto mai attuale quindi l’allestimento di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, in un’epoca come la nostra, dove sembrano contare solo il successo e i soldi, e dove la bontà sembrerebbe d’impossibile attuazione. Soprattutto in mancanza delle condizioni materiali. Temi espliciti del testo inseriti in un contesto di crisi economica e di diffuso impoverimento, che, tra corruzione e degrado morale, trovano un’impressionante eco attuale. Brecht lavorò a lungo a questa “parabola”, tra la vigilia della grande guerra e il pieno del conflitto. E il tragico quadro storico si riflette nel testo, ma con la volontà di guardare, al di là dal contingente, alle radici del male, trattando la materia in forma di favola.

 

In una Cina di fantasia, della regione del Sezuan, tre dèi scendono in ricognizione sulla terra alla ricerca di un’introvabile “anima buona”. La individuano in Shen Te, una prostituta gentile e ospitale, la quale viene da loro beneficiata (per aver dato provvisorio alloggio) con una somma di denaro che le permetterà di aprire una tabaccheria. Ma la sua bontà la rende vittima di tutti, e i poveri del quartiere l’assediano con le loro richieste di soccorso. La donna andrebbe presto in rovina se non si inventasse l’esistenza di un cugino, Shui Ta, un uomo d’affari tanto freddo e spietato quanto lei è di cuore tenero. In questo modo riesce a salvare e anzi ad ampliare la ditta, sino a farne una manifattura, dove, arruolati come operai, i diseredati della zona vengono sfruttati a sangue. Lo sdoppiamento di personalità della protagonista – nel frattempo innamorata dell’aviatore disoccupato e aguzzino Yang Sun, da cui aspetta un figlio – giunge ad un punto di rottura quando Shui Ta viene accusato della sparizione della sua parente.

Il finale della vicenda rimane aperto con la donna che ripetutamente grida «Aiuto!». Una richiesta per difendere la nuova vita in grembo nel timore di vederla nascere in un contesto sociale ingiusto. L’epilogo, qui, è invece trasformato in «Che fare?», una domanda rivolta al pubblico interpellandolo affinché il finale sia meno amaro. In questa guerra tra poveri, dove sono ugualmente da condannare i metodi di prevaricazione di Shui Ta sui più deboli, prevalgono la forza e la verità dell’amore di una donna in un ideale nuovo mondo fatto di solidarietà senza riserve; reso di difficile, eroica attuazione a causa del sistema.

Ed è bravissima Mariangela Melato nell’incarnare con duttilità espressiva i due volti opposti dello stesso personaggio: di dolente, umiliata dolcezza, nel ruolo femminile; e di metallico ghigno espressionistico nel travestimento maschile. Sulla orizzontale e trascolorante scena rossa – di Andrea Taddei – di una Cina arcaica e urbana allo stesso tempo, scendono sipari e tele a delimitare luoghi e ambienti dove s’affolla un’umanità spavalda e arruffona. A cui dà vita un ottimo cast d’attori, fra cui Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Margherita Di Rauso. Una buona sfoltita al testo, alquanto prolisso, avrebbe giovato alla tenuta dello spettacolo, che inciampa in alcuni passaggi ripetitivi perdendo nella tenuta ritmica.

Giuseppe Distefano

 

Produzione Teatro Stabile di Genova. All’Argentina di Roma e in tournèe.

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