L’ammonizione fraterna come «momento della verità»

Dalla correzione fraterna all'ora della verità. Continuiamo il commento al messaggio del papa illustrando uno dei cinque strumenti della spiritualità di comunione di Chiara Lubich
Perdono

(…) La novità dell’insegnamento di Gesù è dunque concentrata nel modo completamente nuovo di rapportarsi con i prossimi, buoni o cattivi che siano, del proprio sangue o no, della propria cultura o no, religiosi o no, tutti i prossimi anche quando sbagliano. Quando Pietro domanda a Gesù: «Quante volte devo perdonare il fratello che pecca?» (Mt 18, 22) Gesù non solo invita a non giudicare mai i comportamenti del prossimo, ma a perdonare sempre e tutti senza fare distinzioni, anzi lega il perdono di Dio al perdono al fratello.

L’amore che spinge al perdono, porta anche a volere il bene, la crescita del fratello, ad amare l’altro come sé, perciò ad aiutarlo quando cade o sbaglia. Gesù indica anche un percorso per come correggere il fratello (cf. Mt 18, 15-17). Soprattutto vuole che la correzione nasca dalla carità, per questo invita «a togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello dopo aver tolto la trave dal proprio occhio» (cf. M​t 7, 4).

Egli pone sia il perdono che la correzione fraterna nell’ambito dell’amore che Lui ha portato, cioè nella “misura doppia” dell’amore: «Se uno ti costringe…, tu fanne con lui due» (Mt 5, 41), o nell’amore che prende l’iniziativa nel ricomporre la carità: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5, 23-24).

Chi entrava a far parte della comunità cristiana imparava come prima cosa l’amore reciproco sulla misura di quello di Gesù. Per cui questi suggerimenti sul perdono e sulla correzione fraterna, sul “doppio amore” erano vissuti normalmente da tutti e con semplicità. C’era la coscienza che lo sbaglio del fratello pesava su tutta la comunità, e Dio chiedeva conto ad ogni membro della comunità del peccato del fratello.

Ne sono una conferma i richiami di Paolo alle comunità da lui fondate: «Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4, 32) o ai Colossesi: «Rivestitevi dunque, come amati di Dio (…); sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (3, 12-13). Anche Giacomo invita i cristiani a «confessare i peccati gli uni gli altri e a pregare gli uni per gli altri per essere guariti» (5, 19-20).
 
Nei primi secoli cristiani
 
Per tante situazioni in cui i cristiani sono venuti a trovarsi, gradatamente si sono persi alcuni elementi caratteristici della comunità cristiana. Tra questi anche la pratica della correzione fraterna, che si affievolisce sempre di più fino a scomparire.

Nelle prime forme di vita cenobitica e monastica si ricomincia a trovare la traccia di qualche elemento di correzione fraterna o di accusa delle proprie colpe, o di riparazione inflitta a chi ha rotto l’amicizia o la pace con qualcuno della comunità. Nelle comunità di san Basilio la correzione fraterna viene ripresa e praticata ogni sera ed è lo strumento che garantisce una vita di autentica fraternità[1].

Anche Agostino nella sua Regola raccomanda di ammonire subito il fratello che sbaglia, usando la dolcezza e l’amore per il peccatore e odio invece per il peccato[2]. In seguito vengono precisate sempre di più le modalità, i tempi e i luoghi in cui fare la correzione fraterna, associata all’accusa pubblica dinanzi alla comunità delle proprie mancanze di non fedeltà alla Regola e all’osservanza. Questi due elementi vengono assorbiti in un unica pratica: il cosiddetto capitolo delle colpe.

Nei secoli successivi la pratica del capitolo delle colpe verrà adottata da tutte le fondazioni religiose, dai Canonici regolari, dai Mendicanti, su su fino alle Congregazioni laicali e clericali del secolo XIX. Successivamente di nuovo anche il capitolo delle colpe incomincia il suo declino sino a scomparire[3].

Giacché però la confessione pubblica e la correzione fraterna erano stati dei potenti aiuti nello sforzo ascetico personale, per continuare ad assicurare il beneficio spirituale si cercano altri mezzi, cercando di alleggerire il rituale, di evitare la troppa attenzione all’osservanza esteriore.

(…) L’autodefinizione che la Chiesa dà di sé nel Concilio Vaticano II come comunione, come immagine della Trinità ci svela il modello a cui deve guardare la comunità religiosa. Se la Trinità è la forma della Chiesa, lo è pure della comunità religiosa.

Per adeguare la vita comunitaria a questo modello si stanno sviluppando forme nuove di condivisione e di fraternità. Si sente l’esigenza di passare dalla comunità concepita comune «vita comune» segnata da orari e prescrizioni a vita nella comunione, a una comunione di vita che si esprime in novità di rapporti di amore reciproco, in una comunione di esperienze e di vissuto, ad una verifica della vita comunitaria.

Vi è quindi oggi l’esigenza da parte della vita religiosa di ritornare alle origini della comunità cristiana, nella quale gli aspetti di comunione erano in primo piano. Emerge, potremmo dire, l’esigenza di una spiritualità comunitaria che illumini tutti gli aspetti della vita, che possa offrire degli strumenti adeguati per viverla e che permetta di superare gli ostacoli nel mantenere l’unità.
 
L’ammonimento in una spiritualità comunitaria
 
Una spiritualità tipicamente comunitaria è quella sgorgata dal carisma dell’unità, vissuto nell’Opera di Maria. Giacché quest’Opera abbraccia persone di ogni vocazione e stato di vita, di ogni religione, così come persone di altre convinzioni, Giovanni Paolo II non ha esitato a vedere in essa «i lineamenti stessi della Chiesa postconciliare, icona visibile della Trinità, modello di quella comunione affettiva d’amore cui la Chiesa è chiamata»[4].

La «spiritualità collettiva» che nasce dal carisma dell’unità ha un suo fondamentale punto di partenza nella reciprocità, quella mutua e continua carità che rende possibile l’unità e porta la presenza di Gesù nella collettività (cf. Mt 18, 20). Questa presenza che vale più di tutto, anche prima dell’osservanza degli Statuti. È Lui che dà senso e valore a tutti gli aspetti della vita della comunità, al suo lavoro, all’apostolato, alla preghiera, allo studio, all’aggiornamento, alla verifica.

Se la presenza di Gesù viene a mancare, tutto perde senso e i componenti la comunità, come naufraghi, si aggrappano a qualunque cosa pur di creare le condizioni perché Egli torni ad essere presente: al chiedersi scusa, al perdono, al patto di misericordia, al ricominciare.

In tutte le varie forme di comunità che esprimono le varie vocazioni dell’Opera di Maria (…) vengono vissuti quegli strumenti che permettono di realizzare la piena comunione dei beni materiali e spirituali, che facilitano la carità vicendevole, che permettono di superare le difficoltà e di risanare le eventuali ferite della vita comunitaria. Tra gli strumenti, quello più delicato e più esigente, che lo Spirito ha suggerito per rinnovare dal di dentro della comunità stessa i rapporti, che li purifica, che li fa crescere nella carità sulla misura dell’amore di Gesù, o anche rinsalda in una unità più forte, è «l’ora della verità».

Agli inizi del Focolare si diceva: «Se uno vede una macchia sul vestito del fratello, glielo dice e con garbo gliela toglie. Non dovremmo aiutarci con lo stesso amore a toglierci gli sbagli e i difetti?»[5].

(…) L’ora della verità non è in funzione di risolvere i problemi della comunità, ma di far crescere la presenza di Gesù, il Santo, perciò di far tendere insieme alla santità. Si è convinti infatti che la strada della santità è più celere se fatta con l’aiuto del fratello, che vede anche dove noi non vediamo.

Anche se può sembrare che questo strumento contenga degli elementi simili alla pratica della correzione fraterna, nell’ambito dell’ora della verità essi acquistano una nota di novità, propria del carisma dell’unità: la reciprocità.

I frutti sperimentati in questo momento di piena comunione della comunità sono innumerevoli. Sono i frutti dello Spirito: una gioia soprannaturale che riempie l’anima per aver sperimentato l’amore di Dio attraverso i fratelli; una luce nuova nel cogliere la volontà di Dio, che viene dall’aver vissuto la verità nella carità; una nuova forza di volontà nel ricominciare e nel vivere anche le parole più esigenti del Vangelo. La comunità si sente immersa in una atmosfera tutta soprannaturale. E la presenza di Gesù infatti che è cresciuta con questa esperienza. Si scopre quale può essere la dinamica trinitaria, nella quale più ci si consuma nell’unità più si emerge realizzati, perché più Gesù[6].

Ciò che sorprende in questo momento particolare della vita comunitaria e che meriterebbe una spiegazione approfondita, è il fatto che proprio mentre si vive la purificazione, si parla di limiti, di difetti, di correzione, si sperimenta la libertà, la gioia, l’amore, il rapporto rigenerato con i fratelli.

Questo passaggio è possibile perché, come Chiara Lubich ha intuito, «la chiave dell’unità sia tra le divine persone, che fra i cristiani è stata svelata dall’abbandono di Gesù in Croce»[7]. Per cui si è imparato a vedere nel dolore provocato dai limiti, dalle mancanze proprie o degli altri, un aspetto di Gesù crocifisso e abbandonato che ha già riempito questi vuoti, li ha già redenti e ora compie quella trasformazione. (…)

Sono molti ormai i religiosi di diversi Istituti che, avendo conosciuto la spiritualità dell’unità, in incontri o in esperienze più prolungate di formazione permanente, hanno potuto sperimentare l’efficacia degli strumenti di una spiritualità collettiva, anche dell’ora della verità.

Indipendentemente dalla diversità di forme in cui si può svolgere l’ammonimento reciproco, ci si è resi conto che esso è uno strumento indispensabile per la crescita della comunità cristiana, se vuole continuare ad essere testimonianza del Risorto e (…) come leggiamo nell’Esortazione apostolica Vita consecrata, «a sperimentare la mistica presenza del Signore Risorto» (n. 42). E così «la comunità religiosa può continuare la sua missione di contribuire a tenere viva nella Chiesa l’esigenza della fraternità come confessione della Trinità» (n. 41).
 
 
Pubblicato su Unità e Carismi VII (1997/3-4) 29-33.



[1] Cf. Parvum Ascetikon 178: PG 31, 1201.

[2] Cf. Regola, 4.

[3] Cf. G. Ghislain, Capitolo delle colpe, in Dizionario degli Istituti di perfezione, II, pp. 176.179.

[4] S. Cola, in Gen’s, 1/1997, p. 5.

[5] Prisma, 2/1996, p. 27.

[6] Cf. C. Lubich, Lettera 11/5/48 “Carissimo fratello in Gesù…”, cit. in J. Povilus, Gesù in mezzo nel pensiero di C. Lubich, Città Nuova, Roma 1981, p. 71.

[7] S. Cola, art. cit.


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