L’altro come un fratello

Esperienze di fraternità in un campo profughi in Kenya.

Lavoro da due anni con una Ong dei gesuiti che si prende cura dei rifugiati della regione dei Grandi Laghi. In Kenya ci sono due campi che raccolgono migliaia di persone; si direbbe che è una nazione dentro l’altra. Personalmente mi occupo dei rifugiati urbani nella città di Nairobi e seguo dei progetti per l’educazione dei bambini e dei ragazzi – ma anche degli adulti – che vivono nello slum intorno alla città. Altri colleghi invece lavorano e vivono proprio nei campi con i rifugiati.

Per motivi di lavoro mi sono recata per un paio di giorni in uno dei due campi. I miei colleghi mi hanno portata a visitare i luoghi dove erano state allestite le classi e l’alloggio degli studenti. Durante gli spostamenti mi sono resa conto della situazione di estrema precarietà in cui vivono. Come avrei potuto occuparmi dei loro bisogni? Ho chiesto a Gesù di aiutarmi a rispondere alle tante domande che mi avrebbero fatto. Avrei voluto che la mia visita fosse per loro motivo di gioia e di speranza.

La sera del primo giorno dedicato ai sopralluoghi, riflettevo su cosa avrei potuto donare a quella gente che vive alla giornata senza sapere o pensare a come sarà il domani. Mi sentivo come Pietro, che di fronte allo storpio che chiedeva l’elemosina davanti alla Porta Bella del Tempio, gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do…». Io potevo donare a quelli che avrei incontrato il mio amore, perché proprio di questo avevano bisogno.

Il giorno dopo Dio ha ascoltato la mia preghiera e mi ha dato una buona occasione. Uno dei miei colleghi ha avuto l’idea di invitarmi a una sessione per la riconciliazione tra i ragazzi del campo di varie provenienze: sudanesi, congolesi, della regione del Kivu, burundesi, etiopi, ruandesi, somali…

Ciascuno portava dentro dei traumi e non mancavano i conflitti. Ho assistito alla lunga e burrascosa discussione tra di loro e a un certo punto mi è venuto in mente di parlare del “dado dell’amore” e di spiegare le varie espressioni dell’amore al fratello. Non so quali parole ho usato: erano un miscuglio di inglese, kiswahili e altre lingue. A un certo punto un ragazzo guardandomi fisso mi ha detto: «Se credi che io posso davvero vedere l’altro come mio fratello, anche io ci credo e posso provarci. Ma quando tu torni a Nairobi e fra noi succedono delle liti, come facciamo? Spiegaci di più». Gli ho promesso che farò di tutto per aiutarli, anche a distanza, in modo che la fratellanza tra loro cresca. Mi sembrava di assistere a un miracolo, proprio quel ragazzo al quale non andava di perdonare, di chiedere scusa, è stato quello che ha fatto il primo passo. Eravamo sorpresi nel vedere con quale forza si è alzato per abbracciare l’altro e i due si sono chiesti scusa, senza timore del Covid-19.

Parlando del “dado dell’amore”, ero uscita allo scoperto e uno dei miei colleghi ha capito che facevo parte del Movimento dei Focolari. Ci siamo presentati e ho avuto modo di sapere che anche lui frequentava i “Giovani per un mondo unito” del mio stesso Movimento. Anche questa era una mano di Dio. Ci siamo proposti di continuare ad aiutare quei ragazzi cercando di inserire nel programma educativo alcuni temi sulla pace e di parlare di Dio secondo la logica della pace, perché molti provengono da culture che presentano Dio sotto altre forme.

Sono poi tornata a Nairobi e il mio collega, rimasto nel campo con quei giovani, spesso mi informa che da quel giorno qualcosa è cambiato; il lavoro è diventato meno pesante. Logicamente a distanza non si possono raccontare i dettagli per via della sicurezza, della protezione dei ragazzi e delle loro famiglie. Ma la mia gioia sta nel sapere che cercano di vivere il “dado dell’amore” e che grazie a ciò cresceranno con una nuova visione della vita.

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