Laicità in Igino Giordani

Alcuni cenni della riflessione sul laico che precede e prepara l’incontro di una delle più importanti figure del Novecento cattolico con Chiara Lubich e il carisma dell’unità

Laicato sacerdozio

 

Sulla questione del laicato e della laicità Igino Giordani (1894-1980) non ha risposto solo col pensiero, con la speculazione teologica o con elaborate visioni ecclesiologiche. La vita e la sua esperienza umana parlano da sole, al riguardo, giacché nella sua complessa biografia risaltano in modo speciale le difficoltà dell’aver vissuto in un periodo storico nel quale il ruolo dei laici non era considerato preminente per l’esperienza di vita religiosa.

 

Per esempio, chissà quanto deve essergli costato l’aver abbandonato gli studi in seminario da adolescente, a causa della chiusura del seminario minore di Tivoli e l’alternativa di dover rimanere nella propria città per proseguire le scuole superiori o trasferirsi ad Anagni. Per una famiglia con pochi mezzi a disposizione come quella di Igino la scelta fu automaticamente quella di continuare la formazione classica nel locale Liceo, dove a insegnare erano professori atei, massoni, marxisti, oltre che a buoni cattolici.

 

Di sicuro Giordani non viene rapito da alcuno spirito di rassegnazione rispetto alle finalità proprie del cristiano in ordine all’evangelizzazione. In un certo senso, Giordani non fu “un prete mancato”, come pure qualcuno – ancora di questi tempi in cui si studia la sua vita ai fini della causa di canonizzazione – ha creduto di poter concludere leggendo questo brano della biografia di Giordani. È chiaro che l’interrogazione sulle ragioni del distacco dagli studi seminariali implicitamente ammette quella più polemica: “si è trattato di una vocazione in crisi?”.

 

In riferimento a Igino Giordani la replica balza immediatamente alla coscienza: no, si tratta di una vocazione in via di maturazione. Sì, perché di Giordani dovremmo dire innanzitutto che fu un laico per vocazione, e rivelò questo suo disegno nei momenti più duri della sua esistenza. La sete di radicalità evangelica l’ha portato a fronteggiare il nemico in guerra – durante il primo conflitto mondiale – con la sicurezza di chi non avrebbe mai sparato un sol colpo contro altri, giacché non uccidere è un comandamento, e bisogna riconoscere il volto di Dio in ciascun uomo, di qualsiasi uniforme.

 

Questo suo coraggio evangelico gli costerà caro: ferite quasi mortali che lo porteranno sul letto di un ospedale per parecchio tempo. Sprofondato nel dolore, la sua ferrea volontà di seguire il cristianesimo sembra vacillare. È l’occasione per entrare in profondità nel dialogo con il crocifisso appeso sulla parete, al quale Igino chiede il perché del dolore che sommerge lui stesso così come la storia dell’umanità. Come accade in tali occasioni, è il momento per ricostruire il significato della propria esistenza attorno a ciò che veramente conta: Dio, l’ideale eterno, inscalfibile, dal quale poter ricavare ogni risposta e le principali ragioni per spendere bene la propria vita. Nelle camerate dell’ospedale, fra le grida strazianti dei feriti, il tempo trascorso senza misura (tre lunghi anni), una suora provvidenzialmente fa avere un libro al nostro giovane e sofferente Igino. Parla di un laico, proclamato beato: Contardo Ferrini, un giurista, un accademico, che donò tutta la sua vita per Dio.

 

Dunque, bisogna ripensare il concetto del laico? Se questa poteva essere la conclusione ovvia di quell’itinerario spirituale, in realtà Giordani procede per via originali e nuove. La sua opera non è volta alla dimostrazione che il concetto di laicità è ben più ampio di quello che si crede, e non riguarda solo una particolare condizione civile. Egli procede all’inverso: per comprendere cos’è la laicità parte dall’idea di sacerdozio regale, comune a tutti i battezzati. Quindi la base del ragionamento di Giordani non è che tutti siamo laici perché appartenenti al popolo di Dio, ma tutti siamo chiamati a esprimerci attraverso modi differenti inerenti al sacerdozio.

L’aver offuscato tale verità è, ad avviso di Giordani, frutto di una ingiustificata separazione che ha creduto di sradicare lo spirito dal corpo, il cielo dalla terra, la religione dalla politica, e così via, secondo le ben note dicotomie spesso esibite nella letteratura giordaniana. Siamo tutti membri dell’unico popolo di Dio, e tutti chiamati alla santità. Ce lo dice chiaramente la prima lettera di Paolo: “Sta scritto: Sarete santi, perché io sono santo. E se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri” (1 Pt 1, 16-17). Pietro dice di tutti i fedeli (laici e consacrati) che sono chiamati alla santità e sono pellegrini in questo mondo terreno.

 

Oggi tale insegnamento contraddistingue l’esortazione apostolica Christifidelis laici, che definisce la santità dei laici come “prima e fondamentale vocazione”, ma era già chiaro in Giordani fin dagli anni Venti, ed emerge dalle pagine dense e incisive di Rivolta cattolica, in cui il Nostro polemizza con quei cattolici che vivono con debolezza e scarso impegno la propria fede, credendo di poter conciliare il paganesimo futurista e fascista con i valori sacri della cattolicità.

Ciò vuol dire che prima ancora di essere fatti per essere sposi, padri, madri, lavoratori, medici, ingegneri, operai, prima di tutto ciò, la nostra vocazione ci chiama alla santità. Forte di tale considerazione, la testimonianza di Giordani è un invito a cambiare un modo di pensare che esiste pure – a volte – dentro la mentalità di qualche fedele. Bisogna smetterla di pensare che la vocazione sia una sorta di scintilla magica che colpisce solo i preti e le suore, i religiosi e le religiose. Essa è per tutti, e ci chiama alla santità lì dove siamo chiamati a vivere le virtù evangeliche, fosse pure al fianco di un cavallo che spingiamo per la campagna, o connessi a una macchina automatica in fabbrica, o in ufficio, o a scuola, a casa ecc. Nel pensiero di Giordani, allora, il laicato è “monachesimo in tuta[1], e nella sua vasta conoscenza patristica Giordani fonda su Giovanni Crisostomo la convinzione che i laici dovessero vivessero come i monaci, con in meno il celibato.

 

Ironia della storia: uno dei principali contributi di Giordani alla riedificazione dell’idea del laicato voleva proporre l’unità fra la condizione laicale e quella sacerdotale. Il titolo del volume al quale Giordani affidò a questo compito era, nella sua mente, Laicato sacerdozio. Siamo nel luglio del 1964, la Lumen gentium non è ancora stata pubblicata (avverrà in novembre dello stesso anno), e per la Gaudium et spes si dovrà aspettare ancora un anno. Laicato sacerdozio sembra un titolo troppo spavaldo, per quei tempi, e l’editore Città Nuova preferirà inserire la congiunzione e fra le due categorie, così che il volume prende forma nel titolo più prudente di Laicato e sacerdozio, che agli occhi del lettore meno attento potrebbe fare impressione di una rinnovata dicotomia fra due concetti che invece Giordani avrebbe voluto presentare nella loro salda unità.

 

Laicismo e Vangelo del lavoro

 

Monachesimo in tuta” significa fondare la questione della laicità sul Vangelo del lavoro. Si tratta di un argomento ricorrente nella ricerca giordaniana, che va contestualizzato alla metà del Ventesimo secolo, nel quale l’interpretazione materialistica e socialista del lavoro umano era diffusa. È bene precisare che in Giordani “materialismo” vale nella duplice accezione del paganesimo materialista delle società antiche e del materialismo storico e dialettico che si trova a fronteggiare nelle società lacerate ideologicamente del Ventesimo secolo.

 

Il lavoro non è quell’azione dettata dalla necessità, utile per procurarsi il sostentamento. Non si tratta neanche di una punizione divina, conseguente al peccato originale, giacché questo ha prodotto la fatica, non il lavoro. Come è scritto nel Genesi: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2, 15). Il lavoro è connesso all’azione creatrice di Dio: uomo e donna, quali immagini dell’Amore trinitario nell’universo creato, sono il vertice della creazione, e il Creatore affida a loro il compito di ordinare secondo il Suo disegno la natura creata (cf. Gen 1, 28).

 

In questo, come dirà ben più tardi anche la Laborem exercens, nel lavoro dell’uomo si riflette l’azione stessa del Creatore dell’Universo. Il lavoro, quindi, come forma alta di partecipazione all’azione creatrice di Dio. Gli ebrei, osservava Giordani, perseguitavano Gesù perché operava di sabato. Ma Gesù rispose loro: “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (Gv 5, 17). Il nostro lavoro, quindi, avviene in stretta connessione con l’opera di Dio, e questo rende sacro il lavoro, elevandolo a missione specifica di cooperazione alla creazione divina.

 

Ripercorrendo la storia della rivelazione, Giordani mette in rilievo come il pensiero ellenista produceva un’idea di lavoro manuale come di una condizione degradata dell’essere umano. Lavorare, in pratica, significava non essere liberi, non essere chiamati a una vita intellettuale, speculativa, quindi essere lontani rispetto alla verità. A Roma, l’otium era considerato necessario per la formazione dell’uomo virtuoso e per l’attività politica. L’otium, quindi, era contrario al negotium, il lavoro. Il lavoro, cioè, visto come linea di demarcazione fra coloro che hanno piena dignità e coloro ai quali, invece, questa è negata.

 

Invece, nel cristianesimo: “In Gesù, figlio di Dio e fondatore del cristianesimo, il lavoro ebbe la più alta riabilitazione: questo, sull’esempio di lui, non sarà considerato più degradante, indegno di uomini liberi; anzi, tolta l’equazione che troppo spesso si faceva tra lavoro e schiavitù, si annullò, anche sotto questo aspetto, la schiavitù medesima, considerata allora come un’istituzione per assolvere certe occupazioni necessarie alla vita materiale e per permettere ai liberi di attendere alle occupazioni superiori, della guerra, della politica e dell’usura… Siffatta gerarchia pagana venne spazzata via tutta quanta dalla morale della società nuova, instaurata dal ‘fabbro’ di Nazareth, il ‘figlio del carpentiere’[2].

 

È il mondo moderno che accentua le differenze, rompe l’unità del popolo di Dio, assegna gradi e titoli arbitrariamente, e tradisce con ciò il disegno proprio della Chiesa nella storia. In questo, osserva Giordani, consiste specificatamente il processo di secolarizzazione della società, con il conseguente risultato di rendere la laicità una sorta di livello squalificato nell’impegno del cristiano.

Le parole usate da Giordani sono forti: il laicato come proletariato della Chiesa. Le descrizioni del processo pure: la separazione di religione e cultura non offende l’idea di uomo, ma la uccide: “Quando non si crede in Dio, a che giova conservarne l’immagine?[3]. Per Giordani, la storia della società secolarizzata, laicizzata, non può che essere la storia degli eccidi, delle soluzioni finali, degli stermini di massa. Questo è il vertice della desacralizzazione in atto.

Ma, attenzione: “accanto ai dissacrati operano i consacrati[4]. Giordani non sta facendo riferimento ai preti, alle suore, alle monache, ai frati… ma ai “liberi, i quali anelano a vivere la vita tutta quanta, umana e divina[5]. A loro è assegnato il compito di “concorrere a distribuire il sacro – il divino – alla natura”, e per tale ragione, conclude Giordani “l’uomo fu creato per una funzione sacerdotale, di distribuzione della vita di Dio nella natura, da cui il corpo dell’uomo derivava… e ogni persona ha da svolgere tale ministero[6].

 

La funzione sacerdotale di ciascuno si esplica attraverso due sacramenti: ordine sacro e matrimonio. “Col primo essi diventano mediatori tra Dio e gli uomini; col secondo generano altri figli di Dio: candidati alla santità[7].

Giordani individuava il motivo comico dietro alle insidie di un modo errato di concepire il rapporto del laico con la santità. Per esempio, l’autorità ecclesiastica riconosce gli istituti di vita consacrata (ordini e congregazioni religiose) come istituti di perfezione, cioè associazioni di uomini o donne che pubblicamente fanno i voti religiosi di castità, povertà e obbedienza. Quelli sono istituti di perfezione, osservava Giordani, giustamente così definiti. Ma sarebbe sbagliato concludere – allora – che chi è sposato o laico vive in uno stato di imperfezione. Se siamo tutti chiamati alla santità, non può esserci la vita perfetta in convento e quella imperfetta fra le nostre case domestiche, dove giorno per giorno viviamo con i nostri cari, il coniuge, i figli, dove giorno per giorno incontriamo i nostri colleghi di lavoro e gli amici.

 

È vero, non tutti siamo chiamati a diventare religiosi o preti, cioè a vivere la “vita di perfezione”, ma tutti siamo chiamati alla perfezione della nostra vita: se siamo in fabbrica, dovremo essere perfetti cristiani lì, amando i nostri prossimi, essendo diligenti e onesti; se siamo a scuola, è lì che dovremo perfettamente vivere il Vangelo, usando carità con gli studenti, amandoli uno per uno e aiutandoli a crescere, rispettando il servizio alla verità nell’insegnamento, promuovendo la comunione con i colleghi; se siamo a casa a rifare i letti, dovremo con perfezione santificarci in quell’ambiente, facendo della nostra casa una dimora così ordinata che possa rispecchiare l’armonia del creato, ed entrandovi si possa respirare un’atmosfera quasi sacra, densa della nostra carità per tutti i nostri familiari e gli ospiti.

 

Il sogno diventa realtà

 

Per un lungo periodo del secolo scorso, i libri sulla patristica e sulla dottrina sociale della Chiesa firmati da Igino Giordani venivano adottati nei seminari quali testi di studio. Girava dunque voce che l’autore di quei volumi fosse il Padre Giordani, probabilmente un teologo gesuita, perché un intellettuale di quel calibro, esperto di temi sulla fede e autore di teologia, famoso e stimato nella Chiesa italiana e in Vaticano, doveva perlomeno essere un padre gesuita.

 

A queste voci Igino si scherniva, confermando la sua paternità: “Padre sì, di 4 figli, i più scatenati del quartiere dove vivo”. Ma al di là degli episodi più o meno curiosi, Giordani fu un laico che si trovò spesso a fare cose che usualmente erano, a quei tempi, di competenza dei preti o dei religiosi, come la direzione della rivista vaticana Fides. Nei suoi scritti degli anni Cinquanta e Sessanta, la sua penna si sofferma più di qualche volta alla riscoperta della storia della spiritualità cristiana in termini d’impegno dei laici.

 

Sull’orizzonte delle grandi svolte storiche, con il loro portato di sofferenze alla corretta visione morale cristiana, è accaduto che dal laicato sono sorte risposte utili per il bene della Chiesa e il rinnovamento della cristianità. Così, quando il fiorire dei commerci distraeva gli uomini dalle cure della anime, fu il figlio d’un commerciante d’Assisi che prese le redini della riscossa spirituale: un laico, Francesco. Oppure, quando tre secoli dopo lo scisma nella Chiesa e la guerra con l’Islam mettevano in pericolo il mondo cristiano, fu un capitano spagnolo, Ignazio di Loyola, a concepire una compagnia agli ordini del Papa per sbarrare la strada ai nemici della fede: un laico, perlopiù in carriera militare. Di esempi di questo tipo Giordani ne produce parecchi, e il suo stesso impegno agiografico è a volte proteso alla scoperta della Chiesa che, in comunione fra tutti i battezzati, trova le risposte ai dilemmi del presente.

 

Ma allora, in che rapporto devono trovarsi i laici rispetto ai sacerdoti e ai religiosi? “non si volle asserire un egualitarismo esteriore, che vuol dire uniformità… si volle attuare una comunione, la quale, mettendo a portata di ognuno i valori della santità, i doni dello Spirito Santo, la sapienza e l’esperienza, faceva da per tutto, ogni momento, del popolo la Chiesa. In essa la gerarchia era la difesa dell’unità e il tramite della comunione[8]. Dunque, la concezione ecclesiologica di Giordani esalta il ruolo della gerarchia, dei sacerdoti, dei vescovi, non lo ridimensiona.

 

Precisamente, è sua convinzione che per cogliere la gerarchia nella Luce più giusta e completa occorre considerarla nel quadro d’insieme di cui è parte: solo la visione del tutto conferisce splendore alle parti. In pratica, non ha più senso ammettere alcuna separazione fra condizione laica e clericale: “Separando l’uomo da Dio, l’età nuova separò dal clero il laicato, dalla Chiesa lo Stato. Dove riuscì, il clero si clericalizzò e il laicato si laicizzò. Con sempre più scarse comunicazioni, essi si mossero su due strade parallele, che talora, soltanto agli ultimi sacramenti, s’incontrarono”. La comunione è perciò un’esigenza dei tempi moderni, un dato delle nostre società complesse e democratiche: “Nell’atmosfera democratica si acuisce l’esigenza anche d’un apostolato minuto, dal basso: quasi un moto dalla periferia al centro, dalle cellule al cuore: un recupero da parte del proletariato spirituale. È stata detta, la nostra, l’era di Maria; e Maria evangelizzò, stando, come grano sepolto, nella calca, inserendosi nel silenzio perché su di esso parlasse lui, la Parola[9].

 

Il pensiero più maturo di Igino Giordani sulla questione del laicato è ormai frutto dell’incontro con la spiritualità del Movimento dei Focolari. In essa, trova la via per ascendere fino alle vette più alte della mistica cristiana, scoprendo possibilità che aveva solo potuto sognare, prima di diventare focolarino. Al seguito di Chiara Lubich, il sogno può diventare realtà: farsi santi insieme, impegnandosi fianco a fianco vergini e coniugati, laici e sacerdoti, radunati nella promessa di Gesù: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 20).

 

 



[1] I. Giordani, Laicato e sacerdozio, Città Nuova, Roma 1964, p. 82.

[2] Id., Il messaggio sociale del cristianesimo, Città Nuova, Roma 20019, p. 266.

[3] Id., Laicato e sacerdozio, cit., p. 14.

[4] Ibid., p. 42.

[5] Ibid.

[6] Ibid., p. 43.

[7] Ibid., p. 44.

[8] Id., Le due città. Religione e politica nella vicenda delle libertà umane, Città Nuova, Roma 1961, p. 453.

[9] Ibid., p. 548.

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