Lago di Carezza, la piaga aperta

Gita altamente istruttiva in uno dei santuari della bellezza dolomitica per costatare i danni dei cambiamenti climatici

Leggevo l’altro giorno delle agenzie di stampa che parlavano di una proposta insolita per rimediare alle conseguenze della catastrofe dell’autunno 2018, che aveva distrutto un’enorme quantità di boschi delle Dolomiti e dintorni (390 chilometri lineari di bosco e 420 milioni di quintali di tronchi abbattuti) per raffiche di vento mai viste: minare i ceppi rimasti sul terreno per facilitarne la disgregazione e quindi il successivo rimboschimento. La proposta viene da Danilo Coppe, esperto di esplosivi, colui che ha “dinamitato” il Ponte Morandi. La notizia mi ha spinto a recarmi in uno dei santuari della bellezza dolomitica, ma anche in uno dei luoghi che più hanno sofferto dei danni della fine di ottobre scorso.

Torno così al Lago di Carezza 38 anni dopo. Sono invecchiato nel frattempo, ma anche lo specchio d’acqua lo è, e così le foreste, i boschi di abeti che lo incoronano. Uno dei luoghi più incantevoli e stupefacenti delle Dolomiti, e del mondo, è ridotto a poca cosa: le sue acque, che enumerano dalle profondità dell’invaso la serie completa dei verdi e degli azzurri del Pantone, sono ridotte a meno della metà della normale superficie, anche se la magia della sua cromia fuori dal comune non è stata ancora completamente persa.

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Ma fa pena vedere il muschio ricoprire rocce e sabbie dei fondali ormai senza acque. E poi c’è la ferita difficilmente riparabile dello scorso ottobre – tra l’ultimo giorno di ottobre e il primo di novembre si scatenò l’inferno, con venti del sud che spiravano a 190 chilometri orari −, un tornado che ha abbattuto migliaia e migliaia di abeti e larici alti e slanciati, famosi nel mondo perché capaci di fornire sonorità infinite alle canne d’organo di legno dell’Europa intera. Non tutto è stato abbattuto dalla furia del vento, ma una delle lunghe e folte coste della montagna sotto il Latemar è stata ridotta a una peluria grigia – così appare da distanza – in cui qua e là appaiono i foruncoli dei ceppi dei tronchi tagliati e trasportati a valle, ormai. Una piaga.

 

E mi dico che bisognerebbe portare qui Trump e Bolsonaro, e Johnson e tutti i capi politici che si fanno beffe delle misure a fatica concordate a Parigi per salvare il pianeta dai cambiamenti climatici, almeno in parte indotti dall’uomo, che stanno diventando la sua tomba, o perlomeno il suo incubo. Terribile visione, il patrimonio della Terra qui mostra uno dei suoi innumerevoli luoghi di sofferenza, qui «la natura geme» biblicamente parlando, non per il parto, ma per la sua agonia, o forse ancora per la sua patologia cancerosa.

Venti a 190 all’ora da queste parti non si erano mai visti, soprattutto se provenienti da Sud (come ha notato Reinhold Messner) e disgeli così accentuati i secoli dell’era cristiani non li avevano ancora conosciuti. Non è perdita di soldi, la lotta contro i cambiamenti climatici, è sopravvivenza. Non solo per l’estetica. Venendo qui a Carezza, i leader anti-Parigi non sarebbero capaci di far altro che calcolare il business che si è potuto fare col legno caduto e recuperato. Ma forse anche nel loro cuore il dubbio emergerebbe sulla responsabilità dell’essere umano nelle presenti catastrofi.

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