L’Africa cresce senza sosta

Avere un dollaro al giorno. È la soglia di reddito pro capite individuata dagli economisti delle Nazioni Unite per considerare la popolazione di un determinato Paese al di sotto della soglia di povertà. In Africa solo sei Stati su 53 hanno al momento un reddito pro capite che supera questa soglia minima di sopravvivenza. Lo dice l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, nel suo ultimo Rapporto sull’economia africana. Si è ancora lontani da quel 7 per cento di crescita annua ipotizzato dagli Obiettivi del Millennio dell’Onu (Millennium goal) per eliminare la povertà entro il 2015. Eppure, qualcosa sta cambiando. In positivo. Dal 2001 l’economia africana cresce senza soste di oltre il 5 per cento annuo. Grazie soprattutto ai prezzi elevati delle materie prime sui mercati internazionali, all’aumento degli aiuti allo sviluppo e alla maggiore stabilità politica. Le economie nazionali in molti casi restano fragili, condizionate ancora troppo dai prezzi delle commodities. Con diversi picchi virtuosi, che non fanno notizia, dove si può parlare di vero e proprio boom di crescita. E tanti buchi neri. I soliti. Le zone d’ombra che permangono e le aree calde. Che nel presente sono la catastrofe umanitaria in Darfur (oltre 200 mila vittime e due milioni di profughi), lo Zimbabwe sull’orlo del baratro del presidente padrone Robert Mugabe, i conflitti in Somalia e Costa d’Avorio e i problemi di sicurezza nella ricca zona petrolifera del Delta del Niger, in Nigeria. Il primato negativo della crescita resta allo Zimbabwe, dove il prodotto interno lordo, secondo le previsioni della Banca mondiale, quest’anno diminuirà di circa il 5 per cento rispetto ai livelli già modesti del 2006. Con un’inflazione che porterà il costo della vita, nello stesso periodo, dal +1.216 per cento a oltre il quattromila per cento (4.274,8 per cento, per l’esattezza) del 2007. Questo il negativo. Che comunque è meno del solito, come rileva l’Istituto internazionale per la ricerca sui conflitti di Heidelberg (Hiik) che ha contato una diminuzione delle africane: dalle 13 guerre del 2002 alle quattro del 2006. Secondo l’African Economic Outlook dell’Ocse, appena presentato all’Istituto affari internazionali di Roma, la crescita del Pil nel 2007 sarà del 5,7 per cento e il prossimo anno dovrebbe arrivare al 5,9 per cento. Dal 2001, si diceva, questa percentuale è al di sopra del 5 per cento. E in alcuni Paesi come l’Angola, la Mauritania e lo stesso Sudan – nonostante il Darfur – si prevede un incremento percentuale del Pil a due cifre, a livello di colossi asiatici: il Darfur è una provincia poverissima del Sudan ai confini con il Ciad dove è in atto una repressione violentissima delle popolazioni locali da parte delle milizie islamiche appoggiate dal governo. Ma nella capitale Karthum il panorama è dominato dalle gru dei cantieri avviati dalle società asiatiche e occidentali, anche italiane, senza troppi problemi di coscienza. Il buon andamento dell’economia è dovuto soprattutto a fattori congiunturali, legati ai prezzi in salita delle materie prime. Oggi l’Africa è entrata a tutti gli effetti a far parte del grande gioco per il controllo dell’energia mondiale. E le grandi potenze fanno a gara per disputarsi fette di questi mercati emergenti. Una torta allettante e piena di opportunità, con alcuni fattori che stanno cambiando negli ultimi tempi l’assetto geopolitico del continente nero. Il primo. Gli aiuti internazionali. A parte il caso dell’Italia, che negli anni della scorsa legislatura ha raggiunto il primato negativo quanto a diminuzione dei flussi (anche se Prodi al G8 in Germania ha promesso lo stanziamento di 260 milioni di euro per il fondo anti- Aids), va rilevato che i finanziamenti internazionali, in generale, continuano a crescere. E soprattutto creano sviluppo perché la loro effettiva erogazione – vedi i programmi Nepad e Hipc, l’iniziativa lanciata da Blair al G8 in Scozia nel 2005 per ridurre il debito – è legata all’attuazione di pratiche di buon governo. Funziona più o meno in questo modo: io, Paese occidentale, ti concedo degli aiuti finanziari se tu, singolo Paese africano, riformi il sistema delle finanze pubbliche, il sistema giudiziario, cerchi di ridurre la corruzione, promuovi la stabilità politica, cerchi di favorire i processi democratici. Pechino, invece, chiede petrolio e offre merci a basso costo. Il secondo fattore da considerare è la Cina. L’Africa sta conoscendo una vera e propria colonizzazione economica cinese, a scapito della perdita di importanza di partner commerciali occidentali consolidati come Stati Uniti, Germania e Francia. Nell’ultimo anno il presidente cinese Hu Jintao è stato due volte in Africa e ne ha visitato una ventina di Paesi. In tutti questi posti è stato accolto a braccia aperte. Pechino ha sete di energia e materie prime. E in Africa trova un mercato di sbocco dalle incredibili potenzialità per le sue merci a basso costo. Inoltre, la Cina può offrire braccia, forza lavoro per costruire quelle infrastrutture di cui molti Paesi africani hanno bisogno come il pane. Strade, ponti, aeroporti, raffinerie e palazzi in cambio di petrolio, rame, stagno, nichel, uranio, coltan, diamanti e così via. Pechino fa affari con tutti i Paesi africani, senza badare troppo ai processi democratici e al rispetto dei diritti umani. Qualche esempio. La Cina ha concesso aiuti finanziari quasi a perdere al governo Mugabe, boicottato da tutte le potenze occidentali, in cambio di minerali: i bambini di Harare hanno cominciato a studiare come lingua obbligatoria il cinese. Così come sono i cinesi che stanno estraendo il petrolio in An- gola in cambio di strade. E in Sudan, la Cina e la Russia vendono armi al regime di Omar el-Bashir, il governo che ha sostenuto i miliziani arabi jaijaweed responsabili del genocidio del Darfur. La Cina compra il 65 per cento del petrolio sudanese (pari al 5 per cento dei consumi di petrolio della superpotenza asiatica). Ora gli Stati Uniti hanno promosso un embargo totale contro il governo del Sudan, ma è improbabile che l’Onu riesca ad adottare una risoluzione di condanna che rafforzi gli effetti dell’embargo americano perché la stessa Cina siede nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come membro permanente e non ha alcun interesse a inimicarsi un partner così docile e prezioso. Un altro fattore preoccupante che sta mutando il volto del continente è legato sempre al petrolio, anche se indirettamente. Le quotazioni di greggio, come è noto, negli ultimi anni sono più che raddoppiate: in poco tempo si è passati dai 30 dollari al barile ai quasi 70 attuali. Con un fiume di proventi per i Paesi produttori. Arabia Saudita, su tutti. Le banche arabe investono gran parte dei loro proventi nelle fondazioni islamiche, che non hanno scopo di lucro. Le fondazioni islamiche finanziano attività sociali e promuovono la diffusione della religione islamica. A parte i casi eclatanti di contrasti religiosi in Nigeria e Somalia, chi è stato in Africa negli ultimi anni, anche nei Paesi a maggioranza cristiana, avrà notato la diffusione a macchia d’olio delle nuove moschee che sorgono come funghi. L’Islam spesso attecchisce nelle fasce di sottoproletariato escluse dallo sviluppo del periodo coloniale e, talvolta, attraverso le scuole coraniche, si gettano semi di divisione che creano potenziale instabilità politica.

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