LaChapelle: un vaccino contro il Kitsch

La mostra Veneziana che mette a nudo cultura di massa e immaginario collettivo

Gli occhi sono sedotti dai colori brillanti e dall’altissima qualità dell’immagine eppure, dietro alla superficie patinata, si nasconde un’arguta analisi dei nostri tempi.

David LaChapelle rivisita capolavori indiscussi della storia dell’arte come L’ultima cena di Leonardo o Il Diluvio di Michelangelo. I volti sono però quelli delle star di oggi: Naomi Campbell, David Bowie, Michael Jackson, Madonna, Lady Gaga, Shakira…

Il linguaggio è quello fotografico; luci, colori, cose e persone sono talmente belli e ricercati da risultare irreali e artefatti. Fra le citazioni artistiche compaiono anche opere a noi più prossime come la Marilyn di Warhol. Uguali sono capigliatura, neo e posizione di tre quarti, come pure i colori squillanti, lo sfondo piatto e il taglio della figura. Il riferimento all’opera di Warhol è immediatamente leggibile, ma il volto è quello di Amanda Lepore.

La finzione è esplicita e dichiarata già dalle fisionomie della modella, caricate oltremodo dalla chirurgia plastica: labbra a canotto, zigomi prorompenti, palpebre tirate… I suoi tratti sono l’esemplificazione di ciò che è eccessivamente artificiale. Prima ancora di diventare la caricatura della Marilyn di Warhol, essa è già la caricatura di se stessa. In certo modo, è messa a nudo l’odierna tendenza di imitare uno stereotipo fino all’esasperazione.

Alcuni dettagli rivelatori mostrano presto la fragilità di questa contraffazione posticcia. LaChapelle non utilizza i filtri cromatici di Warhol, ma interviene col colore direttamente sulla pelle della sua musa. La parrucca di Amanda non è di color biondo-oro ma giallo. Ecco l’ombretto turchese sulle palpebre, ecco il rosso acceso sulla bocca che, ad imitare le ricorrenti sfasature di registro a stampa del maestro pop, è steso abbondantemente oltre il profilo delle labbra.

Sulla pelle sono riportate, addirittura, le sfumature nere che compaiono nell’opera di Warhol ma, in quanto citazioni di una stampa, queste mostrano chiaramente la propria trama a pois o a rosetta. Sotto il mento, sempre ad imitare le ombre dell’opera di riferimento, la modella è dipinta di nero che, però, sbava e cola inesorabilmente lungo il collo.

Crolla il palco. Non si tratta di un chiaroscuro ma di un trucco posticcio. L’effetto finale è destabilizzante. Il gioco di finzione si fa volutamente ridondante. L’artista interviene su un volto già di per sé contraffatto da bisturi e silicone; lo trucca alla maniera di una famosa opera pop che, a suo tempo, fu già la coloratissima contraffazione della fotografia di una diva.

Questo perverso sistema è ciò che viene indagato, smontato ed esasperato; è questo il vero soggetto dell’opera, molto più del glamour di Marilyn, del pop di Warhol o del trash di Amanda Lepore. Vengono attaccate e minate le certezze acquisite, quelle che ci hanno portato ad accettare l’opera di Warhol come un qualcosa di ormai assodato, consueto, abituale. La si vede riprodotta sulle magliette, sulle borse, ma ciò non ci sembra di cattivo gusto.

Invece, l’immagine di David LaChapelle ci turba, ed è giusto che sia così, perché racchiude una sfida d’indagine e d’interpretazione.

La materia di cui sono fatti i nostri tempi viene guardata al microscopio e, senza pietà, ne viene rivelata la finzione, l’artificiosità, insieme all’usura delle mode, all’ipertrofia dell’estetismo, all’emulazione dello stereotipo che diventa grottesca omologazione. L’arte di David LaChapelle fa indossare al kitsch una maschera che ne esaspera i tratti smascherandone le strategie del facile consenso. Ci fornisce strumenti di conoscenza con i quali il kitsch è tenuto sotto controllo, riconosciuto e considerato con il distacco della consapevolezza. Lo si può guardare, usare e maneggiare senza che esso ci ferisca, senza che ci trasformi in consumatori inermi. Ci viene riproposto come un vaccino, un virus che l’arte rende riconoscibile.

Ed è sempre l’arte a fornirci di uno sguardo attento e critico che, come un anticorpo, ci aiuta a debellare imbarbarimento e volgarità, per gustare davvero forme e colori delle nostre strade, delle nostre abitudini, del nostro variegato immaginario collettivo.

 

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