La via dei magi

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Lo scenario delle grandi religioni riunite ad Assisi evoca spontaneamente – complice la recente festa dell’Epifania – lo straordinario episodio dei Magi a Betlemme: Gesù è appena nato, non ha ancora cominciato il suo annuncio, eppure i rappresentanti di un’antica sapienza, che lo attendevano, lo riconoscono e lo adorano. L’episodio è sempre rimasto avvolto da un alone di mistero, reso ancora più fitto, col passare dei secoli, dal moltiplicarsi delle leggende che lo riguardano. Eppure, già il solo testo evangelico – pur nella sua essenzialità – è ricco di contenuti che, con l’aiuto della ricerca storica, e senza far ricorso alle leggende, si può cercare di cogliere. I Magi costituivano probabilmente, in origine, un gruppo parentale all’interno dell’etnia dei medi; Erodoto li descrive come i saggi consiglieri di cui si circondava il re medo Astige. Di certo, per oltre un millennio, fino alla conquista araba, e attraverso il susseguirsi delle dinastie, i Magi esercitarono un notevole influsso sulla vita pubblica dell’area iraniana. Pur avendo conosciuto degenerazioni, che abbassarono talune “scuole” pseudo-magiche a livello di stregoni e indovini, i veri Magi, che individuavano il proprio fondatore in Zoroastro, mantennero una linea sapienziale autentica, come testimonia Ammiano Marcellino che li conobbe in occasione della campagna militare di Giuliano contro i persiani, nel 363 d.C., e li definì quali custodi di un elevato culto delle realtà divine. Nel loro significato più alto, sapienziale, i Magi infatti possiedono il maga, o “dono”, che consiste in una illuminazione, o capacità di visione interiore, determinante una conoscenza di cui gli altri uomini non sono capaci. Il riconoscimento e il rispetto nei confronti dei sapienti è diffuso nelle grandi culture antiche. Non può stupire, allora, che anche Matteo prenda atto che la sapienza dei Magi ha riconosciuto Gesù, e ne faccia, anzi, un episodio rivelatore dell’universalità del successivo annuncio operato da Cristo. Tanto più che i Magi non sono i primi sapienti non israeliti che la cultura ebraica incontra. Nel libro dei Numeri è narrato l’episodio di Balaam, considerato come un caso originale di profetismo. Balaam, infatti, non appartiene al popolo ebreo, ma proviene dalla Mesopotamia; Filone di Alessandria lo definirà magos. Chiamato dal re di Moab perché fermi gli ebrei usciti dall’Egitto, anziché maledire il popolo di Dio, lo benedice, e pronuncia una profezia nel- la quale il futuro re di Israele è associato ad una stella: «Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino. Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17). Se per Clemente di Alessandria i magi avrebbero ricavato il significato della stella dalle proprie conoscenze astrologiche, altri Padri della chiesa, quali Girolamo, Origene, Gregorio di Nissa, considerano i Magi come discepoli di Balaam, eredi della sua profezia. Balaam costituirebbe dunque l’anello di congiunzione tra la tradizione ebraica e quella iranica, la quale mantiene viva l’attesa della stella e, attraverso i Magi, la annuncia nuovamente ad Israele il quale, però, non la riconosce: «I Magi – scrive Alexander Sand – rappresentano i popoli pagani che rendono omaggio di proskynesis cioè di riconoscimento reverente, mentre Israele fin dall’inizio manifesta il suo rifiuto ». Nel vangelo di Matteo i Magi fanno il loro ingresso subito dopo l’annuncio della nascita di Gesù: «Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”. All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme» (Mt 2,2-3). A muovere i Magi dal loro lontano paese è la comparsa di una stella. L’apparizione di una stella, che traccia traccia un nuovo percorso nel cielo, è avvenimento al quale gli antichi, e in particolare le culture che avevano sviluppato un’attenzione e una ricerca di tipo astrologico, danno un grande peso: è un insieme di conoscenze che, elaborate dai caldei nell’area mesopotamica, giunge al mondo ellenistico e, attraverso la sua mediazione, agli arabi; e fa parte di quel patrimonio sapienziale comune al ceppo indo-europeo, all’interno del quale le conoscenze si diffondevano, e i sapienti comunicavano tra di loro con una continuità che oggi facciamo fatica ad immaginare, ma che è attestata dai fatti. In particolare la stella individuata dai Magi è la stella “di” qualcuno, è collegata direttamente ad una grande personalità, come la concezione iranica era abituata a credere. Anche la letteratura ebraica conosce questa personalizzazione della stella, attribuita non a ogni grande personaggio, ma centrale nelle profezie messianiche: «La sua stella – recita il Testamento di Levi (18,3) – sorgerà come quella di un re». Gesù stesso, del resto, nell’Apocalisse di Giovanni dice di sé: «Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16). La vicenda dei Magi apre lo scenario di una attesa presente in oriente, nel mondo indoiranico, oltre i confini della tradizione di Israele. I Magi dunque si erano incamminati ponendo tutta la loro fiducia nel segno divino. Ce li possiamo facilmente immaginare mentre superano tutte le difficoltà di un viaggio condotto senza sostegni umani, nascosti dalla notte nella quale soltanto si rende visibile la luce divina: il percorso dei Magi si presenta come un simbolo del cammino dell’esistenza umana, della vita di ciascuno di noi. Ma improvvisamente, in prossimità della meta, la stella si nasconde, i Magi perdono la loro guida. È a quel punto che cercano un sostegno umano, e si rivolgono al re Erode, cioè a colui che, secondo il buon senso, avrebbe dovuto essere informato della nascita del re-bambino: un avvenimento che, a rigor di logica, ha il suo luogo naturale nella casa del re. È quanto pensano i Magi, che rischiano però, così facendo, di diventare gli inconsapevoli esecutori del disegno di Erode, che non vuole rivali: il potere umano si inserisce nel disegno divino cercando di distruggerlo. Erode infatti convoca i sacerdoti e gli scribi, e li interroga sul luogo della nascita del “Cristo”, dimostrando così di riconoscere, nel re di cui parlano i Magi, il Messia. Questi rispondono con la profezia di Michea: «E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto il più piccolo capoluogo di Giudea; da te infatti sorgerà il capo che guiderà il mio popolo Israele» (Mi 2,6). A questo punto i Magi procedono verso Betlemme, e la stella riappare. Ma non si muove più nella traiettoria da est e ovest, percorsa, logicamente, nella prima lunga parte del viaggio. Si muove, invece, da Gerusalemme verso Betlemme, nella direzione nord-sud. Forse i Magi l’avevano persa proprio per questa sua deviazione umanamente imprevedibile? Disposti a lasciare il loro paese per cercare il re-bambino, continuavano però, nella loro ricerca, a seguire un loro filo logico, sulla base della propria sapienza. E forse, quando la stella prende una direzione che essi non comprendono, non riescono più a vederla. Nella notte non più luminosa, ma oscura, chiedono aiuto alla persona sbagliata. Eppure, nonostante l’errore, si rimettono nella strada giusta, perché credono alla sapienza biblica, che indica con precisione il luogo della nascita. Qui sta la grandezza dei Magi, che riescono ad accettare il limite della propria sapienza, a uscire dalla propria cultura, a perdere sé stessi: questo atto consente il riapparire della stella o il ritorno dei Magi alla capacità di vederla. È un atto grande, quello dei Magi, perché realizza l’incontro tra due sapienze: perdendo la propria in favore dell’altra, permettono che l’attesa della prima trovi risposta. Non sappiamo quanti erano, Matteo non ce lo dice. Solo la tradizione successiva imporrà il numero di tre, basandosi sui tre doni, e attribuirà i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Tutti e tre i doni hanno un uso pratico. Ma a contare, per i Magi e per Matteo, è il loro valore simbolico. L’oro indica la regalità; l’incenso la divinità. La mirra richiede qualche parola in più; la sua pianta appartiene a un genere diffuso nelle regioni tropicali bagnate dal Mar Rosso e dall’Oceano Indiano; la gommoresina che se ne estrae è ancora oggi utilizzata in profumeria; dalla distillazione della mirra si ottiene una miscela dotata di azione astringente e antisettica; infine, era utilizzata anche nei composti per l’imbalsamazione. La mirra, dunque, simbolizza la medicina che può vincere la morte, richiamando la figura del Cristo-Medico, colui che ha compassione dei mali dell’umanità e li assume su di sé per guarirli. Attraverso i tre doni, Gesù è riconosciuto dai Magi come Re, come Dio, come Salvatore. Ma la stessa figura dei Magi ha un alto contenuto simbolico. Ad adorare Gesù, infatti, non sono degli alti funzionari, dei principi, dei re: nulla vieta che i Magi, nei loro paesi di origine, fossero anche questo. Ma è in quanto Magi, cioè sapienti, che intraprendono il loro viaggio, che si compie con l’incontro diretto con Dio: Gesù è, per loro, l’incarnazione della Sapienza, la risposta alle domande dell’intelligenza umana. Secondo Matteo, dopo avere adorato il bambino i Magi se ne vanno, ritornano ai loro paesi e alla loro cultura, portando con sé la luce dell’incontro con Cristo. Non ci viene detto che, in seguito, diventeranno cristiani o fondatori di chiese nelle loro terre. Il messaggio che ne risulta afferma dunque l’universalità di Cristo, il suo essere l’autentico compimento dell’attesa dei sapienti, ma, anche, la libertà umana nella scelta dei modi di riconoscerlo. Come concludere questo viaggio insieme agli antichi sapienti? Augurando a ciascuno di noi di saper riconoscere, quando viene la notte, la propria “stella del mattino”.

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