La svolta del Sudamerica

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La vittoria elettorale del venezuelano Húgo Chávez, il 3 dicembre, che ha conquistato il terzo mandato consecutivo col 61 per cento delle preferenze, la rielezione a novembre del brasiliano Inácio Lula da Silva, e la vittoria dell'equadoriano Rafael Correa alla fine dello stesso mese (58 per cento dei voti) hanno chiuso un importante anno elettorale in Sudamerica. Un anno contrassegnato da una sostanziale conferma della svolta che si direbbe in atto in una regione dove, con poche eccezioni, sono al governo coalizioni di centrosinistra o direttamente partiti o movimenti di sinistra. Infatti, senza dimenticare che a giugno in Perú è tornato al potere col 56 per cento dei voti il socialdemocrático Alán García, completano il panorama: il Cile, dove una coalizione di centrosinistra, la Concertaciòn, governa ormai da 16 anni; la Bolivia, il cui presidente Evo Morales rappresenta quel 60 per cento di indios da sempre emarginati nel più povero dei Paesi sudamericani; l'Uruguay, dove è al governo il Frente Amplio, la coalizione capitanata da Tabaré Vázquez; e l'Argentina, dove i sondaggi dicono che a meno di un anno dalle presidenziali, oggi il 60 per cento degli elettori voterebbe l'attuale presidente Néstor Kirchner. Tali cambiamenti politici hanno prodotto, nella gran parte dei casi, un viraggio non solo sul fronte della politica interna, ma anche di quella estera. Conviene avvertire che questa sintetica panoramica impedirà di cogliere numerose sfumature, che in qualche caso sono differenze sostanziali. Ma se si può parlare di una svolta sudamericana in atto, questa coincide in gran parte con due processi paralleli, che si alimentano l'un l'altro: il consolidamento ed il miglioramento della vita democratica – messa in evidenza da una sempre più estesa rete di partecipazione dei cittadini e della società civile organizzata nei processi decisionali -, e l'applicazione di politiche sociali con risultati visibili, pur se parziali. In Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Venezuela, ecc. oggi ci sono meno poveri e c'è meno fame. Lo conferma il recente dossier della Fao che fa il punto della situazione in vista dell'obiettivo di una riduzione del 50 per cento della fame nel mondo per il 2015. Nel contesto di un complessivo aumento mondiale della popolazione sottoalimentata (20 milioni in più), l'America del Sud è una delle poche regioni dove questa è diminuita (7 milioni in meno). Ma lo confermano anche la crescita generalizzata del prodotto interno lordo (in media, il 4 per cento l'anno in Brasile, il 6-7 per cento in Cile, il 6 per cento in Uruguay, l'8-9 per cento in Argentina, l'8 per cento in Venezuela), la sensibile diminuzione della disoccupazione, l'aumento dell'attività industriale e dell'offerta di lavoro, e l'aumento delle esportazioni. Con una certa frequenza, tali governi sono stati tacciati tout court di populismo. Si tratta di un rischio reale e di una grossa tentazione, da cui tutto sommato non sono esenti nemmeno le più ma- ture democrazie occidentali. Per questo, conviene leggere meglio tra le righe della storia di questi Paesi prima di arrivare a sentenze frettolose. In vari casi si tratta di governi che hanno ereditato situazioni estreme di corruzione e di forte dipendenza economica. Interpretare le intemperanze di Chávez senza questo contrappeso è una lettura parziale. Come lo è non tener conto del fatto che quando Evo Morales decreta che le risorse naturali appartengono alla Bolivia mentre i privati ne hanno in concessione lo sfruttamento, o che le terre incolte vanno distribuite tra i poveri in condizione di coltivarle, più che ispirarsi a Marx si ispira alle culture indigene per le quali le ricchezze della terra non sono separabili dai popoli che la abitano. Non a caso, a digrignare i denti sono stati i proprietari terrieri e le imprese petrolifere. Queste ultime, una volta rifatti i calcoli, hanno compreso che gli utili sarebbero stati pur sempre lauti, anche se non stratosferici e hanno firmato i contratti con lo Stato. Non vedo populismo – osserva dal canto suo il cileno José Miguel Insulza, segretario generale dell'Organizzazione degli Stati Americani -, non vedo nessuno fare promesse che non possa mantenere, o che stia realizzando politiche populiste, che significhino pane oggi e fame domani. La sottolineatura di Insulza è importante, perché la caratteristica di gran parte di queste gestioni è data da un grande pragmatismo più che da posizioni ideologiche. E ciò spiega la decisione di Brasile, Argentina e, a novembre, dell'Uruguay, di saldare in anticipo i debiti col Fondo Monetario. Realtà che il mercato ha colto al volo, e non è un caso che ne sia derivato un aumento degli investimenti dall'estero. Sul fronte della politica internazionale, l'ingresso del Venezuela nel Mercosur (Mercato comune formato da Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay) ha rafforzato il blocco, rendendolo più attraente per Bolivia e, forse, Cile. Tale consolidamento sta dando una spinta anche al sogno di una comunità di Paesi sudamericani, la cui fattibilità dipende dalla formazione di un'alleanza strategica tra il suo leader indiscusso, il Brasile, e l'Argentina; alleanza destinata ad ampliarsi al Venezuela, con l'effetto non secondario di evitarne l'isolamento. La diplomazia di questi tre Paesi è riuscita a cambiare ciò che sembrava un destino inevitabile per il Sudamerica (in realtà per tutta l'America Latina), quello di dipendere dalla politica di Washington, che ha sempre visto la regione come il proprio giardino sul retro: un'area controllata secondo gli schemi della pax americana. Ma ciò senza sentire la necessità di comprenderla. Ai tempi di Reagan si diceva che era necessario non saper niente dell'America Latina per… essere assegnati a quest'area nel Dipartimento di Stato. E quando l'amministrazione Bush ha capito che qualcosa stava cambiando, invece di cambiar politica, ha cercato di sedurre i governi a forza di trattati di libero commercio. Una gaffe che presto ha rivelato la sua inconsistenza. La grande sfida per il Sudamerica è oggi quella di potersi consolidare come blocco, per evitare di trasformarsi in segmenti di mercato, vere e proprie espressioni geografiche, come sostiene il politologo brasiliano Helio Jaguaribe. Ma c'è anche bisogno di una capacità politica lungimirante, che sappia vedere nella regione non solo l'area che esporta il 42 per cento delle proteine animali che consuma il mondo, o che è la maggiore produttrice di cereali o dove esistono grandi riserve di acqua dolce, ma anche un interlocutore in un contesto internazionale bisognoso di multilateralità. L'Unione europea possiede in tal senso notevoli chances. Con più della metà della popolazione sudamericana di origine europea (spagnola, portoghese ed italiana), esiste un retaggio culturale inevitabile capace di motorizzare una politica di partnership tra Europa e Mercosur-Sudamerica, che potrebbe rivelarsi strategica. L'Italia, si direbbe che a questo ci ha pensato molto poco, nonostante che nel sud del Brasile, l'Uruguay e l'Argentina gli italiani siano il 40- 50 per cento della popolazione. Ma insieme ai Paesi della penisola iberica potrebbe fungere da catalizzatore.

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