La stretta di Francesco sui riti antichi delle messe

Papa Francesco con un Motu proprio stabilisce che siano i vescovi gli unici ad autorizzare le messe con il Messale del 1962, ma non nelle chiese parrocchiali. Le letture non saranno più in latino perché «il desiderio di unità è stato disatteso». Intervista al liturgista don Mario Cataldi della diocesi di Ascoli.
Foto Roberto Monaldo / LaPresse 18-05-2020 Roma Cronaca Coronavirus, prima messa pubblica dopo il lockdown Nella foto La celebrazione della messa nella parrocchia di Ognissanti Photo Roberto Monaldo / LaPresse 18-05-2020 Rome (Italy) Coronavirus outbreak, first public mass after lockdown In the pic The celebration of mass in the Ognissanti church

«Questo è un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità». Parafrasando le parole dell’astronauta Neil Armstrong in diretta tv, mentre pianta la bandiera americana sulla Luna, potremmo dire che la riforma della Chiesa che papa Francesco vuole compiere per adeguarla al Vangelo e al Concilio Vaticano II procede per piccoli, all’apparenza insignificanti, ma decisivi passi. Non ultimo il recente Motu proprio Traditionis custodes, una decisione presa di «propria iniziativa», con cui il papa chiarisce alcuni punti in materia di liturgia. Le regole che il papa detta prevedono delle novità.

Per i non addetti ai lavori bisogna fare un passo indietro nel tempo. Nel 1570 papa Pio V, dopo il Concilio di Trento, promulgò un Messale Romano, i testi della messa secondo gli usi della Curia romana, che porta il suo nome poi nuovamente edito da Giovanni XXIII nel 1962.

Sulla spinta al rinnovamento del Concilio Vaticano II, Paolo VI approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Edizione, poi rivista in terza edizione da Giovanni Paolo II.

Nel 2007 Benedetto XVI con il Motu proprio Summorum Pontificuum, sulla scia di alcune aperture di Giovanni Paolo II, decise che «è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa». Era una misura pensata anche per cercare di ricomporre lo scisma dei lefebvriani nella speranza di una loro accoglienza favorevole. Cosa che non accadde.

Il 16 luglio le nuove disposizioni di papa Francesco prevedono la responsabilità delegata ai vescovi per dirimere in modo esclusivo l’uso del Messale del 1962, ribadiscono che i libri liturgici di Paolo VI e Giovanni Paolo II sono l’unica espressione del Rito Romano, permettono ancora di celebrare secondo l’antico rito, ma non nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali, vietano di costituire nuovi gruppi di fedeli che seguano questo rito e di leggere le letture in latino. Unica lingua saranno le lingue moderne.

Papa Francesco stesso spiega in una Lettera inviata a tutti i vescovi del mondo, contemporaneamente alla pubblicazione del Motu proprio Traditionis custodes, le ragioni di questo provvedimento. «Un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”». Mentre «dubitare del Concilio significa dubitare delle intenzioni stesse dei Padri, i quali hanno esercitato la loro potestà collegiale in modo solenne cum Petro et sub Petro nel Concilio ecumenico, e, in ultima analisi, dubitare dello stesso Spirito Santo che guida la Chiesa». «Per difendere l’unità del Corpo di Cristo – conclude – mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei predecessori. L’uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa con il Missale Romanum del 1962».

Raggiungiamo via telefono don Mario Cataldi, parroco ad Ascoli Piceno e per anni direttore dell’ufficio liturgico della diocesi.

Un suo commento sul Motu proprio Traditionis custodes?
Sono molto contento perché papa Francesco ci disincaglia da retaggi del passato con un’opera meticolosa e certosina. Sembra un piccolo passo, come l’istituzione del ministero del catechista e l’apertura del Lettorato e Accolitato per le donne, invece è un grande balzo in avanti.

Qual è il suo obiettivo?
Secondo me di superare l’ostacolo costituito dal fatto di avere due Messali. Il Messale è una carta d’identità, quando la rinnovo, la precedente non è più attuale. Non era necessario abrogare il messale di Pio V e Giovanni XXIII, perché da Paolo VI in poi si usa il nuovo Messale e non c’è più bisogno di usare i vecchi. Papa Francesco non abroga il Messale del 1962 ma lo delimita e lo pone nelle mani dei vescovi.

Ci saranno reazioni?
Non credo bisogna preoccuparsi perché le messe in latino non hanno avuto un grande successo, sono riti molto devozionali, frequentati da pochissime persone che non conoscono neanche il latino. Le buone intenzioni del 2007 si sono smarrite per strada perché i lefebvriani non volevano l’approvazione del Messale del 1962, ma l’abrogazione del nuovo. Il Motu proprio di papa Francesco registra che non è l’oggi della Chiesa. Non preoccupa il Messale del 1962, ma il mancato appuntamento con il generale rinnovamento della Chiesa.

Qual è la ratio dei cambiamenti introdotti dal papa in merito alla celebrazione con il messale del 1962?
Vuole riprendere con decisione il cammino del Concilio Vaticano II e tornare a parlare di popolo di Dio. Papa Francesco non è un liturgista. Vuole una chiesa moderna e restringe il campo di azione perché siamo in una nuova fase, custodi delle tradizioni che non vengono abolite, ma in una storia nuova con una Chiesa che sa uscire dalle secche e sa navigare in mare aperto. Non serve più perdere tempo su questioni rispettabili ma appartenenti ad uno stile del passato. Il vero tema è andare avanti sul cammino segnato dal Concilio.

A 14 anni di distanza dalla pubblicazione del Motu proprio di papa Ratzinger, Summorum Pontificum, la prassi che tipo di criticità ha evidenziato?
Nelle assemblee liturgiche si generava un senso di indecisione. Il vecchio conviveva con il nuovo. Il Motu Proprio del 2007 segnò un macigno per la riforma liturgica e i vescovi, comunque, dovevano assicurare l’antico rito che contempla anche delle forme pietistiche che ha visto il ritorno di gruppi imbarazzanti con livree e divise sconosciute. Dal mio punto di vista rappresentava un passo indietro. Ora è stato fatto un passo avanti.

 

 

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