La straordinaria normalità di Clelia

È un pomeriggio di inizio giugno e non mi aspetto di ricevere questa visita. Diego sta salendo le scale a due a due, con l’agilità della sua giovinezza. Ho dimenticato i tratti del suo viso. Avevo lasciato anni fa un ragazzino appena adolescente e ritrovo un uomo provvisto di barba e baffi… e per di più ad una settimana dall’ordinazione sacerdotale. “Dirò a Diego che avresti piacere di incontrarlo” – mi aveva detto due giorni prima il padre -; ma temo che in questi giorni gli sarà molto difficile trovarne il tempo”. E invece Diego Castagna è qui. Lo sguardo luminoso e buono, il tono della voce pacato, ma fermo, risvegliano in me istintivamente, ricordi A lei avevo pensato con un fremito di commozione, leggendo sul giornale la notizia della prossima ordinazione del figlio. Quanti anni erano passati dal giorno che, nel suo letto di ospedale a Vicenza, accanto alla grande vetrata, mi aveva indicato, con tenerezza, un vasto edificio all’orizzonte, un campanile e la sua croce. “Vedi? – aveva sussurrato -. È il seminario. Diego è là. È un segno. So che posso offrire questa sofferenza per i ragazzi del seminario…”: aveva racchiuso in una frase tutto il senso di una vita. Mi balena continuamente questa immagine mentre Diego si siede e mi informa dei prossimi eventi, dell’emozione che accompagna questa sua scelta. Una vocazione maturata nelle prove, nella scoperta continua, sorretta anche da esperienze e figure speciali. E mamma Clelia è una delle figure speciali. La sua morte è stata un macigno, che ha lasciato in Diego una lacerazione dai contorni straziati. Ancora oggi ricorda: “A 13 anni non ti possono consolare le affermazioni di stima e di ammirazione per tua madre. Non mi interessava avere una madre santa. Io ne volevo una viva, presente, che mi sostenesse… e invece non c’era più”. Dopo un momento di silenzio, aggiunge con calore: “Solo molto più tardi ho capito che la mia mamma non era solo per me, per papà e per i miei fratelli… Era mamma di tutti, lei voleva così, era così. Ma quanto mi era costata la comprensione di questa realtà così profonda”. Pur nel dolore della malattia, quando l’andavano a trovare chiedeva sempre: “Come stanno i ragazzi del seminario?”. Il seminario era la sua seconda casa e ne seguiva le vicende con passione, condividendo i momenti di formazione o di svago. Scriveva nel suo diario: “L’anno scorso, quando Diego entrò in seminario, soffersi tanto di nostalgia e non riuscivo a capire il perché di quella scelta… E poi, quando la malattia è venuta a trovarmi in modo così improvviso e forte, qualche momento di smarrimento sì, c’è stato, ma quello che più ho sentito è stato l’amore di Dio che mi portava in braccio… Per esempio al campo scuola ho capito con quanta premura e amore i ragazzi erano seguiti e aiutati… E quando a settembre Diego è rientrato in seminario, sentivo che lo lasciavo a una famiglia che gli voleva tanto bene, e che Gesù mi stava aiutando…”. Dall’amore per tutti una vocazione La devozione di due occhi lucidi sta ripercorrendo in un baleno il cammino. E, con brevi pennellate di ricordi, Diego ripassa tutto l’affresco di una vita trascorsa all’insegna di una normalità che oggi hastraordinario. “La mia vocazione è stata scoperta, vissuta e alimentata dall’esempio di mia madre. Ero piccolo, ma ricordo bene il suo stile di vita. Era sempre disponibile e attenta per chi avesse bisogno di qualsiasi cosa: tempo, ascolto, aiuto, incoraggiamento, cura… Soprattutto per gli ultimi. Li ricordo ancora arrivare a casa per pranzo o per cena, all’improvviso, e noi tre fratelli e papà a stringerci per far posto. E anche se la casa era piccola, c’era uno spazio per chi aveva bisogno di fermarsi”. Anche il racconto di Diego fa una sosta. La sua fronte si distende ripensando alle persone passate per casa. “Ah, sì, mi ricordo di Giovanni, ospite di una casa di salute mentale, che veniva a farci visita spesso, con qualsiasi tempo. E trovava un ambiente familiare, un’accoglienza spontanea… O quel ragazzo che dopo varie e sofferte peripezie, ci aveva conosciuto e, sentendosi accolto, non mancava di trascorrere da noi qualche momento di festa, avvisandoci del suo arrivo improvviso, magari alla stazione di Vicenza”. Intanto ripenso a Clelia e al grande impegno che le riservavano i tre ragazzi vivacissimi, ma generosi, che solo lei e papà Damiano sapevano “domare”, e alla sua capacità di esserci e di coinvolgere altri per quelli che chiedevano aiuto. Era la prassi. La sua famiglia e quelle della parrocchia lo sapevano e, affiancandola, rispondevano ai suoi appelli. Damiano sapeva farsi uno con la moglie; nonostante il lavoro impegnativo, era disponibile e comprensivo, entrambi parevano avere un solo scopo nella vita di coppia: volere bene a tutti. “Quando c’erano problemi – racconta una loro amica – Clelia contava sempre sull’unità di Damiano. Ma c’era anche sempre qualcuno disponibile in parrocchia. Mi ricordo di quella volta che è stato necessario affidare una ragazza disabile ad una famiglia. Clelia e Damiano avevano dato la loro disponibilità. Quale divertimento per i tre bambini di casa, ma anche quale impegno per Clelia! Con semplicità lei però aveva coinvolto altri nell’esperienza. Così c’era qualcuno che accompagnava la ragazza a scuola se pioveva, o che la assisteva se Clelia aveva un impegno urgente”. Conosciuta l’esperienza di Parrocchie Nuove, espressione del Movimento dei focolari, Clelia si era andata sempre più convincendo che testimoniare e condividere la fede con le famiglie della parrocchia fosse una via importante anche per formare i giovani e creare la solidarietà evangelica. A questo progetto, con Damiano, il parroco e le altre famiglie, aveva dedicato tanti momenti di formazione. Credeva con passione che si sarebbe potuto insieme lavorare per una vera parrocchia. Una “parrocchia nuova”. “Mamma ci ha trasmesso un modello di vita: l’attenzione agli altri. Condividere sofferenze e gioie, farsi uno con i più deboli, sono diventati per me bisogni essenziali, atti di vita che mi hanno permesso di superare i momenti esistenziali più difficili. E ho davvero ricevuto il centuplo dai barboni, dai tossicodipendenti e dai bambini dell’Ecuador con i quali ho vissuto. Imparare a vedere Gesù nell’altro è stato il mio ossigeno vitale!”. Un capolavoro Clelia era convinta che “la tua famiglia vive la tua esperienza così come la sai vivere tu”. E la prova di ciò doveva passare attraverso la sua malattia. Con prognosi infausta. “Chiedo a Dio di capire che il suo progetto nella mia vita è un progetto d’amore. Il Signore fa bene tutte le cose, mettiamo sempre Dio al primo posto”. Con quale serenità diceva e sosteneva questo anche con Damiano e con gli amati figli, Diego, Andrea e Roberto, per cui particolarmente trepidava trepidava con tenerezza di madre. “Quando è morta Clelia – dice una delle persone che l’ha assistita fino alla morte – ho pensato che in quella casa, in quella famiglia, c’era il paradiso. Starle vicino è stato un periodo particolare, ma splendido per tutti quelli, ed erano tanti, che la venivano a trovare. Della sua malattia aveva fatto un capolavoro d’amore”. Diego ha parlato volentieri della mamma, ma capisco che raccontarla è stato un momento di intensa commozione, di conferma e di condivisione. Gli sono grata per questo dono, mentre lo saluto con grande simpatia. Quando se ne va, mi lascia l’invito alla sua prima messa, che celebrerà il 9 giugno. Prima messa Il santuario di Madonna di Lonigo, mi accoglie con le sue guglie. È un grigio giorno di pioggia, ma tutto sembra rida assieme alle particolarissime conchiglie a pettine della facciata a sud. La chiesa è gremita in ogni angolo. Viene risparmiata dalla folla solo la cappella dell’affresco miracoloso. La gente di don Diego è arrivata in massa a festeggiare questo figlio sacerdote. A fatica, dopo tanti anni, riconosco i fratelli di don Diego, Andrea e Roberto, le altre due colonne di una famiglia tuttora accogliente, giovani che hanno saputo convogliare la loro innata vivacità in azioni di solidarietà. Giovani che non esitano, dopo aver lavorato tutta la settimana, a caricarsi uno zaino sulle spalle e a sopportare disagi e fatiche, lavorando di nuovo per quei missionari che contano sul loro aiuto. In quel tempio sono molte le persone che mescolano visibilmente gioia e commozione. Tutto è pronto, l’organizzazione è corale, l’impressione è di una comunità unita. Nel corteo d’accoglienza rivedo don Luciano, che ha condiviso con tutta la famiglia i tempi della vita e quelli della sofferenza, la vocazione e l’offerta di Clelia. Posso solamente immaginare in questo sacerdote, il flusso coinvolgente dei suoi ricordi, i sentimenti di gratitudine per l’ordinazione e di speranza per la vita che così continua in un disegno assolutamente imprevedibile e creativo. Su tutto avverto aleggiare la presenza di quanti vogliono bene a questa comunità e a don Diego, ma che non possono essere presenti. Ci pensa il nuovo sacerdote a nominarli, quando, con umiltà e attenzione, ringrazia Dio e poi le persone speciali della storia di questa vocazione. Nell’incredibile silenzio riecheggia quel nome di madre che ha saputo sostenere la vocazione del figlio con la testimonianza e il dono della vita. E penso a quante madri, di fronte ad una vocazione religiosa di un figlio, potrebbero trovare conforto dalla fiducia e dalla tenacia di Clelia. In un angolo della chiesa, accanto agli ex-voto mi sento così piccola davanti a questa storia di straordinaria normalità… Poi distrattamente adocchio alcuni amici di cui mi ha raccontato don Diego e istintivamente riconosco in loro i volontari dell’Operazione Mato Grosso di cui fanno parte i fratelli Castagna. Ma questa è un’altra storia vera e splendida di questa società assetata di testimoni di vita.

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