La sognatrice di Cavallerizzo

La vicenda esemplare del piccolo centro italo-albanese in provincia di Cosenza, abbandonato dopo una frana, raccontata nell’ultimo libro dell’antropologo Vito Teti

Probabilmente nessuna regione d’Italia è ricca di paesi abbandonati o in via di spopolamento come la Calabria. Terremoti, frane e inondazioni, più ancora che la ricerca di condizioni di vita migliori, sono all’origine del forzato esodo degli abitanti, come pure di un altro fenomeno tipico di questa estrema punta della Penisola: quello delle doppie città. In altura il vecchio paese diruto ormai deserto (quando non vi sono rimasti pochi irriducibili), in pianura o lungo le coste il corrispondente moderno abitato dove i nuovi arrivati stentano a ritrovarsi per lo stravolgimento di tutte le loro abitudini.

Chi più si è occupato di questo focolaio di grande disagio sociale, lui stesso originario di un piccolo centro delle Serre vibonesi – San Nicola da Crissa, che negli anni ha visto assottigliarsi di molto la sua popolazione –, è Vito Teti, un antropologo uso a frequentare i piccoli borghi della Calabria per raccogliere tradizioni e testimonianze dal vivo, costruendo relazioni di amicizia e fiducia con i pochi abitanti rimasti. Col rigore dello studioso e la partecipazione di chi, avvertendo in prima persona sofferenze e istanze di questa terra di emigranti, si sforza di capire l’origine di certi malesseri sociali, onde trarre spunti vitali per un futuro più umano, fatto di valori e di identità non omologate.

I libri di questo “poeta dell’abbandono” sono altrettanti viaggi dell’anima, ritorni a distanza di tempo negli stessi luoghi per coglierne il senso più profondo, per osservazioni più meditate. Come nell’ultimo, edito da Donzelli: Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, che esce in un periodo in cui anche sui media è desto l’interesse sulla sorte dei borghi in rovina o abbandonati d’Europa.

Stavolta Teti inserisce la vicenda calabrese in un contesto più ampio di abbandoni e ritorni, rovine e nostalgie, come quando si sofferma sul fenomeno immigrazione e sulle distruzioni al patrimonio storico-artistico del Vicino Oriente causate da eventi bellici in cui è chiamato in causa anche il sedicente Stato islamico. Per limitarci alla Calabria dei piccoli centri, un esempio di “quel che resta” è Cavallerizzo, frazione del Cosentino la cui sorte l’autore ha seguito e osservato fin da quando, nel marzo 2005, una frana trascinò parte dell’abitato a valle.

La storia di questo paese, dove nel XV secolo s’insediarono esuli albanesi in fuga dall’invasione ottomana, è costellata di frane, fragilità del territorio e interventi miracolosi del patrono san Giorgio Megalomartire, un santo di origine orientale rappresentato in genere nell’atto di uccidere un drago, mostro sotterraneo ritenuto autore delle catastrofi naturali che periodicamente flagellano queste terre.

Purtroppo nulla poté san Giorgio di fronte a questa “morte annunciata” da una somma di fattori: «Il disboscamento incontrollato, l’occultamento delle acque, le nuove costruzioni in cemento armato proprio sull’area franosa, lo svuotamento progressivo del paese per emigrazione, l’incuria di alcuni amministratori che non avevano preso sul serio i segnali della natura, le strade che si spaccavano, le case che si abbassavano, gli avvertimenti inascoltati di tecnici e ingegneri, che però si scontravano con i pareri di colleghi che rassicuravano».

Costretti a sfollare, i trecento abitanti di Cavallerizzo ripararono nella vicina Cerzeto mentre la frana proseguiva la sua opera devastatrice. Comprensibile la loro disperazione quando la Protezione civile annunciò che il paese non poteva essere più ricostruito ed era necessario trasferirsi in un nuovo insediamento da costruire più lontano, nella zona industriale. Essi temevano, e a ragione, la dispersione, la fine degli antichi legami, l’annullamento della «gjitonia, il secolare sistema abitativo e culturale delle comunità albanesi» in case dormitorio che avrebbero stravolto la storia e il senso di appartenenza delle persone.

Nel febbraio 2011 iniziò la consegna degli alloggi. Ma già diverse famiglie non avevano accettato la nuova ubicazione ed erano emigrate altrove, in Italia o all’estero. Altri si erano organizzati in un combattivo comitato per prendersi cura del vecchio borgo con le sue antiche tradizioni (come la festa di san Giorgio, in effetti ripristinata dal 2008). Altri ancora criticavano lo stesso comitato, alcuni esponenti del clero e gli emigrati, responsabili secondo loro di aver creato divisioni e ritardi nella ricostruzione della comunità. Intanto i più anziani morivano e i giovani spesso si sentivano estranei al paese fantasma dov’erano nati i loro genitori.

Qualcuno torna ancora, saltuariamente, nel vecchio abitato preda ormai dell’incuria: per nostalgia, per controllare ciò che è rimasto della sua casa o i movimenti della frana. Qualcuno si ostina a rimanervi, nonostante i ripetuti inviti ad andarsene delle autorità e l’assenza di acqua, elettricità e riscaldamento: è il caso della signora Liliana. Qualcuno sogna, specialmente tra le donne. C’è chi ha sognato i segni premonitori della frana e chi, come Carmelina, un san Giorgio « imbronciato e che non vuole venire nel nuovo abitato». Il commento di Teti: «Per Carmelina, che i sogni sa interpretarli, non ci sono dubbi: san Giorgio crede che la popolazione, lasciando il vecchio paese, l’abbia tradito. Per questo li ha lasciati soli. Liberi di decidere, ma soli».

Si chiede lo scrittore, e noi con lui: «Dopo dodici anni, un esilio senza approdo, almeno per sessanta defunti, fatiche e generosità di tanti abitanti, conflitti e delusioni, lotte nei tribunali e sul web, la domanda resta quella di dieci anni fa: come costruire una nuova comunità che non smarrisca il legame col passato?».

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