La sinfonia della natura

A Roma la creazione secondo gli Impressionisti. 170 opere da Corot a Monet. Ecologisti in anticipo.
Monet

Diceva un mistico che nella natura ogni cosa sta in un «rapporto d’amore» con l’altra. Per chi la natura la frequenta, non solo l’osserva, questa è una verità. Non la si coglie da subito, ma nello scorrere di una consuetudine, o meglio di una vita. La natura si rivela allora animata da voci e respiri in un accordo armonioso con tutto ciò che esiste. E chi ci vive dentro e la ama, si sente bene, in pace.

 Quando Corot dipinge la Betulla alle Ville-d’Avray, con la sua pennellata nebbiosa, crea l’albero con due-tre tocchi di luce. La betulla diventa una “persona” che si erge dentro al paesaggio, voce di delicatezza; così come il Canale in Piccardia scorre tra gli alberi, sereno come le piccole figure umane che lo accompagnano.

Corot è un contemplativo. Non descrive, ama far intuire, orchestrando luci ed ombre in modo sfumato. Dìaz de la Peña, invece, spagnolo che vive in Francia, rivive la Foresta di Fontainebleau (1868) con passione: ama rocce muschiose, alberi avvolti d’edera, luci che si aprono tra i rami e bui improvvisi. Dìaz dice la vitalità della natura, la sua grandezza. Questo pittore ne fa “sentire”, in qualche modo, la “fisicità”; di qui il bisogno, si direbbe una necessità, di unione totale con essa, quasi a creare (o a ricreare) una armonia nuova.

Non è una visione panteistica, ma uno sguardo d’amore che porta i pittori a dipingere en plein air, per respirare, della natura, l’“essere”.

 Nel 1885 Guillemin raffigura L’essenza della primavera nella Valle della Chevreuse. Egli coglie il miracolo di un declivio erboso, di un frutteto, di un’aurora rosata. Non è la foto di un’ora del giorno, nemmeno di una atmosfera. Guillemin penetra nella rinascita di una intera stagione della vita, e della natura e dell’uomo: ce ne fa sentire l’incanto.

 Camille Pissarro vi entra con commozione. La sua Foresta (1870) è la gioia della luce che fa belle le fronde, i tronchi, il tappeto erboso. Sembra che essa ci venga incontro, invitandoci a contemplarne la raggiante bellezza. Pissarro è un poeta lirico: in lui le nuvole non sono soffi d’aria ma creature vive. Egli le ama, perciò le riprende cariche di luminosità.

Non c’è in lui un accenno al dolore, come invece in Alfred Sisley, inglese trapiantato in Francia. La sua Inondazione a Moret, più uno schizzo che un dipinto, è rapida. Le nuvolaglie grigie e gli alberi sbattuti dal vento raccontano il gelo di una natura che ha perso, anche se per breve tempo, la sua tranquilla armonia.

 Ma è a Claude Monet che spetta di far rivivere pienamente nelle tele la sua esperienza, intima e formidabile, con il creato. Cercato, amato sino alla fine della vita, quando la cecità gliene fa vedere solo i filamenti di luce. Ma che luce! Egli l’ha sempre rincorsa. Il Prato del 1889 racconta l’armonia universale – bambini, erbe, fiori e alberi – in un’ora in cui la brezza fa brillare di felicità la primavera in sussulti di luci. E tutto si lega con tutto. Al punto che nei Meli in fiore del 1872 abbiamo la sensazione – direi una certezza – di percorrere realmente il sentiero costeggiato dalle piante fiorite, grumi di bianco soffice, trovandoci nel cuore stesso della natura. È la forza dell’ispirazione che prende possesso di un artista: egli diventa, cosciente o meno, voce della verità e della bellezza. Ciò è ancora più evidente nelle famose Ninfee. La natura è ormai la patria ideale dove egli si rifugia, come molti di noi ancor oggi vorrebbero. Diversamente non si capirebbe la sua ossessione per questo soggetto, variato e riproposto con tinte dallo squillante all’indefinito. Una volta infatti entrati, solo anche per un attimo, nell’anima della creazione non ci si sente mai sazi. È, forse, questo l’invito di Monet e dei suoi amici.

 

Da Corot a Monet. La sinfonia della natura. Roma, Vittoriano, fino al 29/6 (catalogo Skira).

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