Gustav Mahler, Sinfonia n. 8., Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia.
Un uragano di applausi, appena Antonio Pappano, esausto e felice, chiude un’entusiasmante esecuzione dell’Ottava di circa un’ora e mezzo ininterrotta. Diretta dall’autore a Monaco nel 1910, l’anno prima della morte, essa è un affresco-parabola sul destino umano. Parte dall’inno cristiano “Veni Creator Spiritus” e chiude con il “Finale” del Faust di Goethe e l’esaltazione dell’eterno femminino che crea la vita, perché «tutto ciò che passa è simbolo», di esso. Mahler vive tra due epoche e potremmo dire, in anticipo, fra due millenni. Perciò la sinfonia risulta una summa delle esperienze musicali ed estetiche precedenti – dal gregoriano all’opera italiana (Verdi e Bellini), da Wagner a Bruckner –, e un’apertura, con echi di Richard Strauss e di Schönberg, verso il futuro: ritmi spezzati, colori lancinanti, mormorii misteriosi di una compagine enorme di orchestrali, doppio coro, coro di bambini e cinque solisti. Come la Nona beethoveniana apre e chiude delle civiltà, così l’Ottava sigilla il ponte tra ciò che fu e ciò che sarà.
Di qui il fascino di una musica esplosiva, sospesa tra cristianesimo e laico panteismo, dove tutto è mosso dalla forza “divina” dell’amore. Esecuzione perfetta.