La sinagoga aperta

Il momento di un impegno rinnovato nel dialogo tra le due religioni. La visita del papa a Roma.
Giovanni Paolo II

Il 17 gennaio Benedetto XVI varcherà la soglia della Sinagoga di Roma. Non sarà il primo papa a farlo. Abbiamo ancora negli occhi quella domenica dell’aprile di ventitre anni fa, quando Giovanni Paolo II attraversò il Tevere. E Benedetto XVI sarà il primo papa a visitare tre sinagoghe: Colonia, New York e, ora, Roma.

È una visita importante, quindi, ma per capirne il significato si può leggere fra le righe di altri avvenimenti meno noti. Recentemente mi ha colpito il titolo – The Long and Bumpy Road (la strada lunga e accidentata) – dell’intervento di Deborah Weissman, presidente della Iccj (Consiglio internazionale di cristiani ed ebrei), per un convegno internazionale. S’ispira alla canzone dei Beatles, The Long and Winding Road (La strada lunga e tortuosa). Non si può certo negare che il rapporto fra ebrei e cristiani sia una strada lunga e tortuosa. E, come dice la Weissman, tutta accidentata.

 

L’idea mi riporta a Gerusalemme, qualche mese fa, quando rabbi David Rosen, in un convegno ebraico-cristiano, intitolò una tavola rotonda Building Bridges Over Troubled Water (costruire ponti sopra l’acqua agitata). Erano le settimane successive al conflitto di Gaza e alla vicenda Williamson e la destra era arrivata al potere in Israele. La visita di Benedetto XVI, appena confermata, si preannunciava tutt’altro che facile. Quella tavola rotonda aiutò i presenti a rendersi conto di quanta strada fosse stata fatta negli ultimi quarant’anni. Si cominciò con Giovanni XXIII che, accogliendo in Vaticano una delegazione ebraica, si rivolse a loro con la frase ormai famosa: «Sono Giuseppe, vostro fratello». Poi venne il Concilio con il documento Nostra Aetate, per arrivare a quel «siete i nostri fratelli maggiori» pronunciato da Giovanni Paolo II a Roma. Non possiamo nasconderci le difficoltà. Tuttavia si è arrivati ad un punto in cui non si torna indietro.

 

L’intervento della Weissman sottolinea proprio il necessario ottimismo, come atteggiamento da assumere nel dialogo. È necessario arrivare alla convinzione che l’uniformità non è il vero punto d’arrivo. Il filosofo ebreo, rabbi Abraham Isaac Hakohen Kook, dal 1921 primo rabbino capo askenazita della Palestina, scriveva: «Alcuni sbagliano a pensare che la pace mondiale possa essere costruita solo grazie ad un consenso totale. La verità è che la pace reale può venire nel mondo solo attraverso una molteplicità di pace».

Ma è anche vero che il tempo può portare a un consenso, come quello maturato all’interno della Iccj nel congresso di Berlino ed espresso in 12 punti programmatici. Per capirne il valore, è necessario tornare al 1947, quando 65 ebrei e cristiani, a Seelisberg in Svizzera, portarono alla nascita della Iccj. I dieci punti che emersero erano una serie di raccomandazioni alle Chiese cristiane per evitare di presentare l’ebraismo in modo negativo.

In questi 62 anni si è fatta una strada che allora sembrava impensabile. Il convegno di Berlino, cosciente di quanto spesso certe problematiche riemergano, si è fatto portavoce di un nuovo piano programmatico, che si indirizza non solo alle Chiese cristiane ma alle comunità cristiane ed ebraiche, e pure alle persone di buona volontà. In particolare, i cristiani e le loro comunità sono chiamati a combattere l’antisemitismo e a promuovere il dialogo con gli ebrei, sviluppando anche una comprensione teologica della loro fede, impegnandosi a pregare per la pace a Gerusalemme. Ma, fatto nuovo, segue anche un richiamo agli ebrei perché valorizzino gli sforzi compiuti da molti cristiani per un cambiamento di atteggiamento nei loro confronti, riconoscendo la dovuta distinzione fra l’antisemitismo e una critica equilibrata di Israele, come Stato. Si è, dunque, arrivati a una reciprocità di impegno, fondamentale nel dialogo.

Non solo. Si tratta di promuovere e favorire una vera educazione all’intercultura e all’interreligioso. È un fatto importante e una risposta a quelli che, in ambito cattolico, accusano il dialogo di essere univoco e, quindi, di cedere troppo di fronte al mondo ebraico. D’altra parte, è anche un monito chiaro alla necessità di vedere quanto di positivo si sta facendo sull’altra sponda.

Ma c’è un ultimo elemento. Sempre più spesso il dialogo ebraico-cristiano diventa un trialogo, con il coinvolgimento anche dell’Islam. Un segno chiaro che la strada resta, certo, lunga, tortuosa e accidentata, ma un “navigatore dall’alto” sta guidando verso la destinazione finale.

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