La sfida dell’innovazione

Università, aziende, trasferimento tecnologico. L’esperienza della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Scuola superiore Sant'Anna di Pisa

Andrea Piccaluga è docente di management. In qualità di delegato al trasferimento tecnologico, si occupa di trasformare le idee dei giovani ricercatori della sua università in progetti reali, industrialmente remunerativi. Il tema è centrale nell’Italia di oggi, che vuole partecipare alla sfida dell’innovazione, in un mondo fatto di concorrenza globalizzata.
 
Cos’è l’innovazione?
«Significa fare qualcosa di nuovo rispetto all’esistente, intervenendo sull’aspetto tecnologico o organizzativo o su nuove modalità di gestire un servizio, con o senza nuove tecnologie. Bisogna però distinguere se si mira ad innovare per fare qualcosa di utile per la società, se si vuole costruire un business vero e proprio, o se si punta ad entrambi gli obiettivi. In quest’ultimo caso gli imprenditori si devono impegnare in attività quanto più proteggibili, difendibili, non imitabili».
 
Proteggere come?
«Se voglio introdurre un’innovazione che sia il più possibile diffusa e utilizzata, posso raccontarla in giro perché sia imitata. Ma ci sono situazioni in cui per introdurre un’innovazione serve un investimento; occorre cioè realizzare un prototipo e poi iniziare a vendere sul mercato. Ma se qualcuno investe, vuole anche essere sicuro che l’invenzione non sia facilmente imitabile, per cui bisogna brevettarla, anche quando ha origine dall’università».
 
Ma l’università non è, per definizione, aperta allo scambio di conoscenze?
«L’università è la principale fabbrica di nuova conoscenza. Poi ci sono le imprese che vogliono fare innovazione, ma hanno spesso bisogno delle invenzioni che vengono dall’università, la quale può sempre diffondere liberamente una sua idea. Ma se la racconta a tutti senza brevettarla, la prima azienda che investe rischia molto, perché le altre aziende potrebbero aspettare di vedere se funziona e solo poi investire a loro volta nel prodotto. Se invece l’università “impacchetta” l’idea in un brevetto, l’azienda interessata paga per il brevetto, realizza il prodotto e lo immette sul mercato. In tal caso l’università ha raggiunto uno dei suoi obiettivi, dare un contributo alla società tramite l’introduzione di nuovi prodotti e servizi, auspicabilmente utili».
 
L’obiettivo dell’università in questo caso è fare soldi?
«No, anche perché i soldi arrivano in media su uno o due brevetti su cento. La maggior parte delle idee, invece, possono essere diffuse liberamente in quanto non richiedono ulteriori investimenti. Il vero obiettivo delle università, infatti, è portare idee nuove nella società e nel mercato. Bisogna però saperlo fare. Per fortuna quasi tutte le università italiane ormai hanno un ufficio di trasferimento tecnologico, che interagisce con i ricercatori, si fa raccontare le invenzioni in arrivo, li informa sui possibili brevetti da depositare o già esistenti, sui contatti con aziende esterne e possibili finanziatori, e li aiuta, se vogliono, a creare loro stessi nuove imprese per mettere in pratica le loro intuizioni».
 
Le famose start-up?
«Sì, abbiamo aiutato molti dei nostri ragazzi a far nascere aziende radicate non tanto su un’idea geniale, quanto su anni di ricerca e competenze concrete. Si dice che nel nostro Paese università e imprese non dialogano, ma questo è vero solo in parte. Il problema nasce quando l’università non è organizzata e l’azienda troppo chiusa. Se invece si creano rapporti personali di fiducia, le occasioni fioccano».
 
Cosa dovrebbe fare l’impresa?
«Nelle aziende chiuse spesso manca la figura chiave che operi come interfaccia e promuova i contatti con l’esterno. Per reggere la sfida dell’innovazione, serve una grande capacità di assorbimento delle idee che vengono dall’esterno. E un gruppo dirigente aperto al nuovo».
 

L’azienda spugna
Nel mondo che cambia vorticosamente, un’azienda non può partire dal presupposto che tutte le persone intelligenti lavorino solo per lei; deve quindi creare ponti per attrarre da fuori le idee, assorbirle e tradurle in nuovi prodotti e servizi, con veloce capacità di reazione.
Per fare questo, bisogna prima di tutto individuare nell’azienda le persone che sappiano operare come interfaccia, valutando occasioni e idee esterne, poi assicurarsi che il management abbia realmente voglia e capacità di aprirsi, e infine ripensare i prodotti e i servizi offerti.
 
Empatia
Creare interfacce vuol dire parlare lo stesso linguaggio del settore di ricerca che ci interessa, conoscerlo, capire cosa muove certi concetti e soprattutto farsi raccontare le idee nuove che nascono, facendosi contaminare da modi di pensare imprevisti.
 
Fiducia
Nell’aprirsi al mondo esterno, l’azienda deve definire bene le regole di interazione, perché il rischio aumenta. Serve fiducia nella propria capacità di controllare la situazione, ma anche nel partner esterno a cui si fanno conoscere i propri processi interni. L’azienda come una spugna, quindi, ma d’acciaio.
 
Fantasia
Qualsiasi azienda è abituata da anni a fare le cose in un certo modo, le sa fare solo così. L’interazione con l’esterno serve, invece, proprio a reinterpretare il proprio business, con creatività e coraggio, senza resistenza e paura del nuovo.
 
Alberto Di Minin – ricercatore di Management dell'Innovazione presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

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