La scuola sotto esame

Dialogo tra insegnanti sull’andamento di un anno di trasformazioni.
Scuola

Un altro anno scolastico si è avviato al tramonto e le luci della sera colorano il paesaggio in modo assai diverso da quelle dell’alba o del meriggio. Se all’inizio si son fatti progetti e previsioni, ora è arrivato il momento di tirare le somme. Diamo allora un fugace sguardo al vecchio 2009-2010, che sembra allontanarsi all’orizzonte titubante e inquieto. Perché, poverino, ha dovuto trarsi d’impaccio dalle maglie fagocitanti di una riforma che non sembra aver accontentato nessuno. Non sono stati felici gli insegnanti, ridotti di numero, mobilitati e con lo stipendio bloccato per tre anni. Non lo sono stati certamente i precari, le cui speranze di essere inseriti in ruolo sembrano svanire per sempre. Non il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, decimato quanto e più del personale docente. Non i prèsidi, costretti a mandare avanti gli istituti senza fondi. E nemmeno le famiglie a cui non è stato garantito il tempo pieno nella scuola primaria.

 

Certo, una riforma era inevitabile. Tuttavia, il buon senso avrebbe voluto che, prima di mettere mano a una profonda trasformazione, si fossero considerati gli ambiti nei quali era necessario intervenire. Appariva ovvio immaginare un’attenta analisi della situazione per capire quando, dove e cosa cambiare. Ma un’analisi non c’è stata. Invece, esigenze di natura esclusivamente economica hanno condizionato ogni aspetto delle attuali politiche scolastiche.

«La riforma – osserva Cecilia Landucci, insegnante in una scuola media del Lazio – è stata dettata principalmente dall’esigenza di risparmio, diminuendo gli orari-cattedra di varie discipline, aumentando il numero di alunni per classe, tagliando personale ausiliario e fondi per attività accessorie, accorpando scuole più piccole. A fronte di questa razionalizzazione, se così la vogliamo chiamare, non sono seguite indicazioni riformistiche riguardo all’aspetto peculiare della scuola, cioè l’educazione e la didattica». Inoltre, come osserva Nicola Chiriano, insegnante in un liceo calabrese, «degli oltre 8 miliardi di euro che verranno tolti all’istruzione in tre anni, non un centesimo andrà speso per il miglioramento della qualità dell’offerta formativa».

 

Naturalmente la scuola non è un corpo monolitico e all’interno del territorio nazionale, come anche tra ordini diversi di scuola, è possibile riscontrare grosse differenze. Un dato tuttavia resta comune. Emerge anche dalla recente indagine dell’Istituto Iard sugli insegnanti italiani e il loro modo di fare scuola: sempre più la motivazione all’insegnamento è di tipo vocazionale, nasce dal desiderio di trasmettere i contenuti della disciplina studiata, di lavorare con i giovani, di poter migliorare la società. «All’insegnate, oggi – dice Giuseppe Provenzale, docente in un istituto tecnico a Treviso –, è richiesto molto sacrificio, tempo da dedicare agli alunni oltre l’orario scolastico e non retribuito, rapporti da costruire con continuità, fiducia nelle giovani generazioni, capacità di interpretare il ruolo di docente con autorevolezza ma anche di mettersi alla pari con i ragazzi dai quali c’è molto da imparare per avvicinarsi a una comprensione reale del loro mondo».

 

Una seconda considerazione riguarda la popolazione scolastica che negli anni è cambiata profondamente, anche se poi non è facile spiegare esattamente in cosa consista il cambiamento. Di primo acchito emerge il disorientamento, la maggiore fragilità, soprattutto affettiva, la difficoltà di attenzione, lo studio approssimativo e discontinuo; tra i bambini poi, osserva Annamaria Ridolfi, insegnante elementare a Trento, «sono in crescita gli atteggiamenti aggressivi verso i pari, i casi di difficoltà a relazionarsi, i comportamenti esibizionisti». Di contro, si deve anche riconoscere che i bambini si affacciano alla scuola con maggiori conoscenze e che i giovani sono più cosmopoliti che in passato, grazie a Internet, ai viaggi divenuti più facili, alla convivenza con gli stranieri.

In generale gli alunni di tutti i gradi e ordini di scuola, pur mostrandosi sempre più restii alla didattica tradizionale, si rivelano particolarmente collaborativi quando vengono loro proposti progetti di cooperazione, magari finalizzati alla socialità. «Mi viene spontaneo pensare ai ragazzi della mia scuola – sottolinea Vera Munafò, dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Scaletta Zanclea (Me) – che, educati a vivere all’insegna della pro-socialità, sperimentata nel progetto Sport4Peace, sono stati capaci di essere collaborativi nella fase di emergenza scaturita dalla tragica alluvione che il primo ottobre 2009 ha colpito il loro piccolo paese. Fuori dalle aule scolastiche li ho visti collaborare con i volontari della protezione civile dimostrando un alto senso di cittadinanza attiva».

 

La nota più dolente è il rendimento scolastico degli alunni che, a quanto rilevano i sondaggi più recenti, sembra essere in caduta libera: malissimo in matematica, non tanto meglio in italiano.

«In questi ultimi anni – afferma Mario Damiano, insegnante liceale in Campania – ho incontrato all’inizio del terzo liceo allievi che non sapevano leggere e in quinto liceo studenti che facevano errori grammaticali da quarta/quinta elementare, specie nelle verifiche scritte». Giova poco sapere che, in base all’indagine internazionale Iea-Pirls del 2006, i bambini italiani di 9 anni risultano i migliori a livello europeo nella conoscenza della lingua materna. La conosceranno bene, forse, ma scrivono malissimo. Inutile in questo contesto tirare in ballo la riforma; anche solo limitandosi alla promessa di più matematica e più lingue, precisa Chiriano, «nel liceo scientifico, giusto per citare un esempio, il saldo netto è di meno 3 ore di matematica al triennio, meno 2 ore di fisica al biennio e la scomparsa della seconda lingua comunitaria, attivabile al posto del latino».

 

«Come può mai esserci una scuola di qualità, di morattiana memoria – osserva Maria Rita Di Benedetto, docente di filosofia e storia a Palermo – se l’unico obiettivo è tagliare e risparmiare? La qualità non si commisura sull’investimento? Evidentemente la scuola, per lo Stato italiano, non è più un settore su cui investire e se questa è, come sembra, la logica, uno Stato che non investe sulla scuola è uno Stato che non investe sul proprio futuro». 

Non per questo, tuttavia, gli insegnanti hanno smesso di credere nella scuola. Semplicemente, come afferma Roberto Borri, insegnante in un liceo scientifico di Latina, «c’è da parte di tutti una maggiore coscienza della criticità del momento che stiamo vivendo e ciò ha messo in moto un processo di discussione e riflessione sul nostro essere educatori». L’inquietudine, insomma, resta, ma la passione con cui il corpo docente ha svolto il suo lavoro in questi anni sembra essere una solida garanzia (anche se speriamo non l’unica) per il domani dell’istruzione.

 

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