La rete della pace

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Il vento batte impetuoso e umido sulla finestra della mia stanza sul lungomare di Tel Aviv.Mi sembra una metafora meteorologica della situazione politica e militare della zona. Ma nella mia stanza fa caldo; mi conforta il fatto di trascrivere una serie di interviste fatte a Gerusalemme e dintorni in due giorni di immersione nelle realtà più dure e più eroiche che mai mi sia stato dato di conoscere. Ho intervistato gente che ha perso uno dei propri cari in guerra, da una parte e dall’altra, e che ha rinunciato a vendicarsi, costruendo la pace, come tutti loro mi hanno detto. Ho scoperto una galassia di organizzazioni che definire umanitarie è poco: persone che, riunendo invariabilmente israeliani e palestinesi, lavorano per la pace possibile , come dicono. Cioè per una vacanza comune di bambini palestinesi e israeliani a sfondo sportivo; oppure per una scuola in cui convivono allievi delle due parti; o per un pasto della pace cotto da cuochi che favoriscono la riconciliazione anche culinaria; o, ancora, per salvare un piccolo per opera di medici pediatri delle due parti che fanno curare i bambini palestinesi affetti da gravi patologie negli ospedali israeliani attrezzati di tutto punto rispetto a quelli palestinesi… Siamo in guerra, è vero – mi dice il vice-sindaco palestinese di Betlemme, George Sa’adeh -, ma la voglia di pace spunta ovunque e supera i muri, li scavalca, li abbatte con la forza dell’idealità che si esprime in atti concreti. Mi rendo conto come mai in precedenza dell’eroismo di questa gente che, per motivi spesso diversi da una parte o dall’altra, rischia veramente la pelle per dire no alla violenza. Ed è con questi sentimenti in cuore che mi avvio in taxi sotto la pioggia battente al Peres Center for Peace, una organizzazione di cui tanti intervistati mi hanno parlato. È un simbolo vivente dello stallo in cui versano le politiche israeliana e palestinese, entrambe rese impotenti, senza più l’appoggio popolare necessario. Ron Pundak era lui stesso un politico, uno di quegli altissimi funzionari che, disdegnando le cariche ufficiali più mediatiche, lavorano per la vera politica. È stato, per intenderci, uno dei due israeliani che hanno negoziato e steso il trattato di pace di Oslo. Ha lavorato fianco a fianco con Rabin, Peres e Arafat prima di abbandonare la politica attiva, preferendo la società civile, secondo lui più atta ormai a portare in qualche modo alla pace questa Terra Santa martoriata. La pace che viene dal basso, dalla gente di buona volontà. Il Peres Center for Peace è la più importante organizzazione non governativa (Ong) israeliana. È indipendente dalla politica, nonostante porti il nome del suo fondatore – il notissimo politico israeliano, premiato col Nobel per la pace – come una bandiera. L’idea di base – mi spiega Ron Pundak, il suo presidente – è che bisogna costruire la pace dal basso, con la gente, perché la pace che viene dall’alto, quella dei politici, ha fallito il suo obiettivo. Tutti dicono questo, anche se le trattative di Ginevra, ad esempio, hanno certamente una loro importanza. Noi investiamo in strutture per la società civile, per conoscerci tra persone dei due popoli, per lavorare assieme, non per scrivere trattati di pace. Vestito casual, col telefonino che vibra sulla scrivania in continuazione e la posta elettronica perennemente aperta sul suo computer per via delle emergenze, Ron Pundak mi apre qualche squarcio sulle attività dell’Ong. Lavoriamo ad esempio nel campo dell’educazione, con iniziative e pacchetti di formazione alla pace, che si servono di workshop, con musica, cinema e attualità, per far passare ai bambini e ai ragazzi l’idea che una pace quotidiana è possibile. Usiamo lo sport: più di 2 mila alunni delle elementari e delle medie hanno sperimentato questa iniziativa che riunisce insieme, per quattro settimane, bambini e ragazzi palestinesi e israeliani per imparare a convivere a cominciare da un terreno sportivo, da un campo di calcio. I luoghi d’incontro sono in prevalenza in Israele, ma alla frontiera coi Territori palestinesi, in 25 diversi posti. Coloro che vi partecipano dormono nelle stesse camere, mangiano agli stessi tavoli, condividono gli asciugamani sulla spiaggia sotto l’occhio vigile dei maestri e istruttori palestinesi e israeliani che, a loro volta, sono una testimonianza della possibile convivenza. In questa attività abbiamo coinvolto anche grandi atleti di grandi squadre, come ad esempio il giocatore Eto’o del Barcellona. Ma anche calciatori italiani. Ron Pundak risponde al telefono, c’è da sbloccare il passaggio di un bambino di Saving Children – l’organizzazione dei pediatri di cui parlavo prima – che ad un posto di blocco è stato fermato senza spiegazioni. Due-tre minuti di trattative, con la coscienza che un solo secondo può essere decisivo per la vita di una persona, poi si siede di nuovo in poltrona sullo sfondo dei più alti ed eleganti grattacieli di Tel Aviv. Riprende come niente fosse, la vita qui è un bene prezioso, ma ad ogni istante rischia di sgusciare tra le dita per un nonnulla: People to people è un’altra iniziativa del Peres Center. Si tratta di mettere assieme israeliani e palestinesi uniti da una professione: giornalisti, psicologi, operatori sociali, studenti di politologia, leader della società civile… Insieme facciamo da ombrello per 120 associazioni. C’è anche un po’ d’Italia in questo Peres Center. In effetti la Regione Toscana aiuta la Ong a costruire questa casa comune di coloro che la pace dicono di volerla costruire dal basso. Riprende Pundak: Lavoriamo anche nel campo degli scambi economici, fungendo in qualche modo da Camera di commercio tra Israele e Palestina, visto che un’istituzione del genere non esiste e non può esistere per il momento. A quest’iniziativa sono affiliate trenta organizzazioni dell’artigianato, del commercio e anche della piccola produzione industriale. Lavoriamo pure in campo agricolo, in particolare nell’assistenza agli agricoltori palestinesi, in modo che possano coltivare con buoni risultati i loro terreni, curando poi l’export dei loro prodotti soprattutto verso l’Europa: fragole, pomodori, pompelmi… Un altro campo d’azione è quello informatico, sia in Israele che nei Territori palestinesi. Ma in primo luogo cerchiamo di accrescere la capacità informatica dei palestinesi. Crediamo infatti che la società civile dei Territori debba irrobustirsi, perché il partenariato sia efficace e produttivo per la pace. Ed eccoci alle iniziative forse più conosciute del Peres Center, quelle che riguardano la sanità. Last but not least, ecco il campo della salute – mi spiega Ron Pundak -. Da una parte cerchiamo di accrescere il livello della qualità dell’assistenza medica attraverso corsi di aggiornamento che coinvolgono medici israeliani e palestinesi, in particolare in campo pediatrico, perché i bambini sono la risorsa più importante che abbiamo. Dall’altra, concretamente, con Saving Children cerchiamo di salvare quei bambini palestinesi che morirebbero se non avessero un’assistenza ospedaliera adeguata, cosa che non c’è ancora nei Territori palestinesi. Si salvano bambini e si incrementa la cooperazione e la conoscenza reciproca. Qui al Centro Peres ha sede l’ufficio che coordina l’iniziativa: opera trovando l’ospedale e i medici giusti, organizzando i trasbordi con le ambulanze palestinesi e israeliane, prenotando gli alloggi e tutto il necessario per genitori e parenti, trattando con le autorità israeliane per i necessari permessi, negoziando coi militari dei check point, trovando il pigiama per il papà d’uno dei bambini, prendendosi cura dei piccoli rimasti a casa… Insomma, si fa tutto quanto si rivela necessario – mi spiega Pundak -. Finché, quando il bambino guarisce, paghiamo il conto e lo riportiamo a casa. Abbiamo partnership avviate con ospedali e servizi vari, per cui i costi per ogni caso si riducono e possiamo così curare più bambini. 3300 casi in tre anni non sono pochi… Sono il più grande motivo d’orgoglio che io abbia qui al Centro Peres – ammette sorridente Pundak -. Ma non basta. Un passo avanti sarebbe quello di cominciare a trattare anche le diverse forme di cancro. Qui da noi si guarisce nel 75 per cento dei casi, mentre nei Territori si muore con la stessa percentuale! Non c’è nessun angolo di Palestina che non sia stato toccato da questa nostra iniziativa, e la gente lo sa. Anche chi ha votato Hamas ha talvolta tratto beneficio da queste iniziative, e mai nessuno si è opposto al fatto di curare un bambino! Nel contempo, come dicevo, stiamo facendo dei corsi per pediatri palestinesi, e cerchiamo anche di fare in modo che qualche ospedale palestinese si attrezzi adeguatamente per poter trattare alcune delle patologie per la quale portiamo i bimbi palestinesi in Israele. In fondo, bisogna riuscire a ridurre ogni dipendenza, rendendo autonomi i palestinesi. Come costruire la pace, allora? Le rispondo in estrema sintesi – mi fa Ron Pundak -: in primo luogo è un affare dei politici e degli Stati, non si può mai dimenticarlo. In secondo luogo il dialogo deve coinvolgere anche il raggiungimento della sicurezza degli Stati e delle persone. C’è poi un terzo elemento: l’economia e le infrastrutture debbono superare i confini degli Stati per arrivare a una collaborazione efficace. Infine, c’è la società civile che costruisce il tessuto sul quale i tre punti precedenti possono essere attuati. Nessuno può vivere da solo, siamo tutti interdipendenti: è un processo storico molto lento, quello della pace, ma ineluttabile. Prenda il nostro caso: il governo appoggia le nostre idee, ma non ci finanziaria. Ci teniamo a rimanere indipendenti, perché così non siamo condizionati e possiamo lavorare con più fantasia, senza lacci e laccioli. Anche nei Territori i governi non si sono mai opposti alle nostre iniziative. Certo, gli israeliani rispetto ai palestinesi sono favoriti nel lavorare assieme a noi, anche per semplici motivi economici: se la gente non ha da mangiare, mica può mettersi a fare associazionismo! Ma sono sempre più i palestinesi coinvolti in questa gara di solidarietà. E le altre zone limitrofe che pur non essendo in guerra non godono di una pace piena? Lavoriamo anche con Egitto e Giordania, in diversi campi, perché non possiamo limitare la pace con delle frontiere; tuttavia riscontriamo che la società civile palestinese è paradossalmente molto più aperta di quelle egiziana e giordana alla collaborazione. Abbiamo poi dei legami coi Paesi europei, per diverse forme di amicizia e partenariato. Il tutto gestito da quaranta persone, più le centinaia di collaboratori e le migliaia di volontari. Un pugno di persone, o poco più, ma ben motivate. Il ruolo della società civile – conclude Pundak – cresce enormemente e ci sarà bisogno sempre di più di essa per sorreggere le decisioni politiche. Oggi festeggiamo i primi dieci anni di vita del nostro Centro Peres. Tra altri dieci anni ci ritroveremo cresciuti . E la pace vera? Nessuno può impedirmi di sognare, anche se sono un realista incallito.

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