La regina degli scacchi

La ficiton più vista su Netflix è La regina degli scacchi (The Queen's Gambit). La serie è basata sull'omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis. La serie esplora la vita di una bambina prodigio degli scacchi, orfana, di nome Beth Harmon, seguendo le sue vicissitudini dall'età di otto ai ventidue anni (da metà degli anni '50 a tutti gli anni '60).    

Se ne parla, e in generale bene, di La regina degli scacchi: una tra le serie – se non la serie – più sulla bocca degli appassionati in questo scorcio finale di drammatico, difficile, doloroso, 2020. È disponibile per gli abbonati Netflix dalla fine dello scorso ottobre, e dal quel momento è stata sempre più vista, discussa, analizzata. Fino a ritagliarsi per molto tempo lo scettro del prodotto più cliccato sulla potente piattaforma americana. Perché girata con eleganza – il taglio è cinematografico – perché scritta in modo non banale e perché racconta un personaggio interessante, articolato, esile fisicamente ma psicologicamente ben piazzato, anche se misurato e poco verboso nel mostrare il suo complesso mondo interiore.

E poi parla degli scacchi, o quantomeno gli scacchi sono lo sfondo vistoso, affascinante, su cui la storia si muove, e questo tappeto di torri e di alfieri, di pedoni e strategie di gara, di riquadri bianchi e neri e di incontri tra giocatori sempre più bravi col passare dei sette episodi (non troppi, che bello!) conferiscono originalità e identità a questa serie – basata sul romanzo omonimo di Walter Travis, del 1983 – estranea al futuro distopico e soprattutto al crime e all’esibizione di violenza, che non è poi così scontato ed è un bel punto a suo favore.

È una storia di provincia americana, un salto indietro fino alla metà del secolo scorso, con fotografia e scenografie adeguate. Da lì è una passeggiata vintage, valida, un po’ anche in giro per il mondo, tra un torneo di scacchi e l’altro fino al 1968 di Mosca, tra questione razziale e guerra fredda, anche se pure questi temi non sono particolarmente attivi e stanno pure loro lì a dare sapore, aroma al ritratto di una protagonista iconica, di quelle che si fanno sentire per presenza scenica e magari resteranno nel tempo a colpi di stagioni: il finale è aperto, diversamente aperto se non altro, nel senso che dei primi anni di Elizabeth Harmon detta Beth – questo il nome della bella protagonista coi capelli rossi e dei vestiti spesso eleganti, deliziosi – non sappiamo moltissimo.

Prima del suo tempo nell’orfanotrofio nel Kentucky – determinante per l’incontro col suo mentore, il custode signor Schaibel, il cui racconto è circoscritto al primo episodio – non sappiamo molto. Si, c’era una madre biologica disperata e c’è stato un incidente. C’era la paura di questa donna dopo l’aiuto rifiutato da parte di un uomo e a un certo punto, stavolta non con i flashback mentali di Beth ma attraverso un suo viaggio in automobile, vediamo una roulotte in mezzo al nulla dove la ragazza racconta di aver trascorso i suoi primissimi, misteriosi, anni, probabilmente in seguito a una rovina economica.

Ma basta così, e tanto spazio bianco ha l’odore di una seconda stagione, che sarebbe un prequel – pura supposizione, realistica (?) immaginazione – di questa storia tutta al femminile (e questa volta il tema è attivo, è sostanza del racconto!) di talento e solitudine, di doni e mancanze, di forza e fragilità dentro una ragazza prodigio che come nessuno vede la partita prima di giocarla e che ha trovato negli scacchi un appiglio straordinario per non affondare esistenzialmente.

Epperò non le basta per trovare pace, e allora Beth beve tanto per colmare il vuoto, e per essere lucida durante le partite (paradossalmente) si stordisce con le stesse pillole ansiolitiche che le davano in orfanotrofio da bambina. Perché in fondo in fondo sente, avverte sottilmente, che i conti non tornano, che essere la migliore aiuta, tiene a galla, ma non basta a farle respirare vita a pieni polmoni. «Se non ci fossi tu qui – dice alla sua vecchia amica Jolene, compagna di stanza ai tempi dell’orfanotrofio, quando questa va a trovarla – me ne starei a bere». Siamo «famiglia», risponde l’amica, «io sono qui perché tu hai bisogno di me». Perché quella di Beth è anche una lunga ricerca per capire che non sono gli scacchi a salvarla davvero, ma le relazioni.

Lo conferma la sequenza all’uscita dell’orfanotrofio, quando ci torna per i funerali di Schaibel, che come un padre le ha insegnato tanto sugli scacchi. Quel viaggio doloroso le mostra che quel silenzioso signore le voleva bene, visto che per tutta la vita ha conservato ritagli di giornale e foto dei successi della “sua” bambina. “Finalmente” Beth piange e scopre energia nuova, e quando a Mosca tutti i giornalisti americani le chiedono un commento sui suoi trionfi, lei si limita a parlare di un umile custode di orfanotrofio. Fa il nome del maestro: «Schaibel», e si raccomanda che i giornalisti ne scrivano. Sta trovando lentamente le risposte, questa ragazzina forte e costretta a una vita difficile. Tra queste anche la consapevolezza che quelle pillole non servono, e infatti, con fatica e coraggio le getta via. Tra queste anche la consapevolezza che gli altri sono fondamentali, ed è grande la gioia di scoprire che i ragazzi conosciuti nel suo lungo viaggio negli scacchi sono tutti lì al telefono, dall’altra parte del mondo a darle consigli, a farla sentire amata, incoraggiata e accompagnata.

Sembra comprendere, Beth, che gli scacchi sono stati riparo dalla tempesta, nascondiglio dai fantasmi e importante strumento per relazionarsi al mondo. In qualche modo suo linguaggio d’amore. Ma oltre c’è dell’altro. E persino il grande russo Borgov l’abbraccia quando lei lo sconfigge: quasi consapevole di un bisogno d’amore grande, costante e sotterraneo in Beth. E infatti «giochiamo» dice lei all’anziano sconosciuto che incontra in giro per Mosca, a piedi, da campionessa del mondo che non vuole saperne di dichiarazioni politiche tra America e comunisti. «Giochiamo» per conoscerci, per entrare nella vita vera, ed è un bel finale.

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