La reciprocità come terapia

L’impegno dei volontari dell’Avo per umanizzare la sanità. A colloquio col fondatore, prof. Erminio Longhini.
volontarie dell'Avo

Non è facile sintetizzare nei tempi di un’intervista le molte benemerenze di chi, arrivato all’apice della carriera medica col costante obiettivo del bene comune, è noto soprattutto come il fondatore dell’Avo, Associazione Volontari Ospedalieri, antesignana dei volontariati a scopo sociale in Italia, che ha fatto da modello a molte iniziative analoghe. Eppure lui – parlo del prof. Erminio Longhini – si definisce semplicemente «uno che la vita ha portato ad essere costantemente presente in posizioni difficili per l’uomo».

A questo milanese che ha superato gli ottanta chiedo l’origine di una iniziativa che nel tempo sempre più va rivelandosi come frutto di un’ispirazione.

 

«Ero da poco primario medico all’ospedale di Sesto San Giovanni, avevo solo trentanove anni e lavorando con una équipe sanitaria raccogliticcia mi chiedevo come poter aiutare degnamente il mio prossimo malato, quando capitò l’occasione buona, provvidenziale. Coadiuvato da un generoso sponsor – una facoltosa signora diventata mia paziente –, mi trovai a dirigere una delle divisioni mediche più tecnologicamente all’avanguardia. Eppure non ero soddisfatto: troppo spesso il malato veniva considerato un organo da curare se non un numero di posto letto, piuttosto che nella sua dignità di persona.

 

Fu allora che in collaborazione con l’Istituto di Sociologia dell’Università Cattolica organizzai una ricerca in quaranta ospedali della Lombardia. Con mia grande sorpresa, il 34 per cento dei consultati denunciava come disagio più frequente la solitudine legata alla “diversità” determinata dalla malattia. Ciò mi ricordava la solitudine di Gesù nell’orto degli ulivi e ancor di più nel momento in cui aveva sofferto l’abbandono in croce. Di qui l’idea, condivisa con mia moglie Nuccia, di invitare una ventina di nostri amici a farsi “prossimi” di chi, nel corso di un ricovero, attraversava momenti di emarginazione, ansia, abbandono; e ciò offrendo a lui solidarietà, sostegno materiale e morale per qualche ora alla settimana».

Tocca alla comunità sociale, secondo Erminio, attraverso i suoi componenti più sensibili, partecipare al mondo della salute nel servizio disinteressato al malato, il che comporta sempre un salto nel buio. Ma proprio questa gratuità suscita il “miracolo” del dono da parte di chi viene messo nelle condizioni di esprimere i valori insiti nella propria sofferenza, valori necessari anche a chi è sano. Così l’ospedale da luogo chiuso può aprirsi in modo partecipativo. «Insomma –conclude Erminio, che in pochi tratti ha delineato la specificità dell’iniziativa –  là dove la tecnologia nulla può, la reciprocità ha ancora molto da dire».

 

Da quel lontano 1975, le associazioni nate da questa semplice intuizione si sono moltiplicate in maniera sorprendente: oggi sono 240 quelle presenti in Italia e riunite in federazione, con circa 30 mila volontari dai 18 ai 70 anni, attivi presso oltre cinquecento strutture di ricovero (ospedali, case di riposo, Rsa, hospices). Nel complesso, oltre 3 milioni di ore di servizio gratuito prestate all’ammalato.

A proposito della Federavo, questa «grande famiglia», Erminio, che ne è l’attuale presidente onorario, accenna appena al travaglio che essa affronta quotidianamente per mantenersi coerente con i princìpi ispiratori e dare al tempo stesso risposte adeguate alle sempre nuove esigenze poste dal complesso sistema socio-sanitario. «Bisogna andare controcorrente, giacché individualismo ed egoismo sono sempre in agguato, ma con la convinzione che il Bene è in noi e che il Bene vince», sostiene con forza.

 

Quale percorso ha portato gradualmente Erminio a considerare la realtà dell’“altro”? «Provengo da una famiglia dignitosamente povera. All’università mi ero fatto onore, ma una volta terminati i miei studi di medicina era sopraggiunto un periodo di crisi. In sostanza, non mi sentivo di addossarmi la responsabilità del bene fondamentale dell’altro, la salute. Per anni ho cercato vie collaterali di attività, ma qualche evento mi rinviava sempre alla medicina interna. Intanto, non mancavano preoccupazioni d’altro genere: ero da poco sposato e in attesa di un figlio. Richiesto come medico accompagnatore a Lourdes, durante una notte passata in preghiera davanti alla Grotta, mi si formulò un pensiero: non occorre essere un vangatore, basta essere una buona vanga. Mi sembrò di percepire i termini di un patto che risolse ogni dubbio: studia, impegnati e vicino al malato ti starò accanto io. Al rientro da quel viaggio, affrontai la mia professione con una nuova serenità, dirigendo per oltre trent’anni una divisione medica dedita in particolare all’urgenza. Da allora rinnovo quotidianamente quel patto».

 

In verità le radici di questo impegno di Erminio verso il “tu” sofferente risalgono ancora più indietro nel tempo. «Avevo quattordici anni quando venni invitato a far parte della Conferenza di San Vincenzo del mio collegio a Como. Si andava ad incontrare gli italiani trasferiti in Germania a lavorare (erano gli anni di guerra) che venivano rimpatriati, perché ammalati, in carri merci sigillati. Noi eravamo i primi connazionali che essi incontravano e ai quali portavamo piccoli doni. Grande l’emozione reciproca. Seguirono nel dopoguerra esperienze nella carceraria, nell’assistenza sociale nel rione degli sfrattati; infine si costituì la prima San Vincenzo universitaria mista di cui fui il “vecchio presidente”».

 

In quegli anni avviene l’incontro determinante per Erminio: quello con Chiara Lubich e la spiritualità dei Focolari. «Rimasi conquistato dalla sua grande intelligenza, acutezza e profondità del pensiero posti al servizio di una sapienza che si incarnava nel vivere quotidiano attraverso l’affidamento a Dio che ogni creatura, conscia del suo limite, dovrebbe avere verso il Creatore. La sofferenza che costantemente accompagna la vita dell’uomo trovava ora la sua finalità verso il “tu” attraverso l’amore a Gesù abbandonato sulla croce. Mi si illuminò anche la figura di Maria, da sempre amata: nell’annunciazione, quando pronuncia il suo “fiat”, nel suo “stare” ai piedi della croce e infine nella sua assunzione in anima e corpo per essere più concretamente vicina a noi suoi figli nel nostro cammino di purificazione».

 

Per finire, il racconto di una fra le tante le esperienze: «Durante un corso di formazione Avo a Cagliari, la presidente di una Avo sarda mi ringrazia per “averle salvato la vita”. In seguito alla morte per un incidente stradale dell’unico figlio, una grave forma depressiva l’aveva portata ad escludere per lungo tempo ogni contatto sociale. Fino al giorno in cui, invitata in ospedale da un’amica dell’Avo, s’era vista affidare un ragazzo immobilizzato a letto per una grave patologia muscolare». E lì, la svolta: da persona chiusa nel suo dolore ad amica e madre di quel ragazzo. È nata così la reciprocità. «Quella signora, che ora m’appariva lieta e luminosa, era stata curata da chi lei pensava di assistere».

 

Il malato è tuo medico

 

Vai nell’associazione vuoto di te.

Quando ti avvii verso il malato, usufruisci di quel tempo “strada” per renderti conto che tu vai dal Dio che vi è in lui.

Preparati al rispetto del primo livello di comunicazione: la corporeità e il suo linguaggio. È la porta per arrivare all’intimo del pensiero e al cuore.

Ascolta per conoscere.

Offri il tuo servizio-amore per costruire l’amore reciproco.

Il malato è la tua vocazione, è via prima per la tua salvezza: oltre che malato e bisognoso del tuo servizio, egli è medico della tua attività

 

(Da: Come essere un buon volontario, del prof. Erminio Longhini)

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