La rapina del secolo

Dal sistema carcerario brasiliano le radici della super-banda in azione nella “triple frontera”. Un sistema che promuove organizzazione criminali anziché scoraggiarle

Una cinquantina di assalitori tra cui tiratori scelti, mezzi blindati, armi di grosso calibro e sofisticati esplosivi. Sventrato un edificio intero, mentre la polizia era tenuta a bada da automezzi incendiati in ogni via di accesso. E poi la fuga nella boscaglia e in barca, raggiungendo il Brasile sull’altra sponda del Paraná, e uno scontro a fuoco con 3 morti e 4 feriti a Itapulandia. Così il Primer comando capital, organizzazione criminale brasiliana, ha portato a termine la rapina del secolo in Paraguay. In fondo, sono “solo” 11 milioni di dollari, ma la spettacolarità è degna di un film.

 

La rapina è avvenuta a Ciudad del Este, seconda città del Paraguay, nel cuore della mitica triple frontera tra Argentina, Brasile e Paraguay. Mitica perché sembra che tutto possa nascondersi nei suoi meandri e tutto possa passare attraverso la sottile membrana dei controlli di frontiera. Traffico di persone, armi, organi, banconote, contrabbando e chi più ne ha più ne metta.

 

La rapina ha avuto luogo nella sede locale della Prosegur, multinazionale della custodia e trasporto valori. Le autorità brasiliane hanno arrestato 20 sospetti (5 di loro già rilasciati) e recuperato circa un milione di dollari, oltre ad automobili, esplosivi ed armi. La polizia paraguayana ha invece individuato una villa di un quartiere privato nelle vicinanze di Ciudad del Este dove sarebbe stato pianificato il delitto.

Ma cos’è e come agisce il fantomatico Primer comando capital (Pcc) responsabile del fatto? «È anzitutto un’idea o, come dicono loro, un movimento», ha risposto alla Bbc Karina Biondi, antropologa brasiliana studiosa del fenomeno le cui origini risalgono agli anni ’90, nel sistema penitenziario dello Stato di San Pablo. Il Pcc nacque come un gruppo di autoprotezione dei prigionieri in un contesto di gran brutalità. Si ispirava a un collettivo preesistente, il Comando vermelho sorto vent’anni prima. Il tragicamente celebre evento che segnò la nascita del Pcc fu il massacro di Carandirú, raccontato dal premiato film omonimo. Nel mega-complesso carcerario di San Pablo (uno dei più grandi del continente) fu sedata nel 1992 un rivolta con un bilancio di 111 morti. Otto superstiti trasferiti a Taubaté fondarono il Pcc per cercare giustizia ed esigere migliori condizioni.

 

Intanto, i loro colleghi fuori dalle sbarre pensavano al finanziamento tramite attività illecite. L’“idea” e il “movimiento” si espansero un po’ dovunque in Brasile, specie nelle zone di frontiera, dove da sempre c’è più libertà d’azione per queste organizzazioni. Secondo dati del Centro de investigación de crimen organizado “InsightCrime” riportati dalla Bbc, probabilmente il gruppo, che è ora «l’organizzazione criminale più grande e meglio organizzata del Brasile, dispone di membri nella maggioranza degli Stati del Paese e controlla le rotte del narcotraffico tra Brasile, Bolivia e Paraguay». Il che implica il controllo di una frontiera di 1.365 km. E sta cercando di affermarsi anche in Perú e in Uruguay, da dove passa la merce per l’Africa e per l’Europa.

 

Secondo Karina Biondi, il fatto di fondarsi su una sorta di “codice di comportamento”, non normativo ma “fluido”, ha permesso che «l’etica del gruppo si estendesse ad altri Stati brasiliani senza necessità di ordini superiori». Il punto fondamentale di tale etica, spiega la Biondi, è che «i reclusi devono stare uniti, non lottare gli uni contro gli altri, ma affrontare il nemico comune: il sistema carcerario».

 

Un sistema attualmente fallimentare, con una popolazione nazionale di 620 mila persone in istallazioni che ne permetterebbero 370 mila, con sovraffollamento, carenze igieniche e sanitarie (con un’altissima incidenza dell’Aids, sempre superiore al 10 %) e una cronica insufficienza di personale di vigilanza. Il cocktail esplosivo, al quale si è aggiunta in gennaio la rottura della tregua tra il Pcc e il suo rivale “Familia del Norte”, che ha causato una serie di ammutinamenti ed occupazioni di carceri: Compaj (Manaus), con 57 morti, Monte Cristo (Boa Vista, 33), e Alcaçuz, nel Rio Grande do Norte, con 26 morti e una carcere totalmente controllato dai prigionieri per oltre un mese.

 

La situazione appare gravissima: accanto a pochi, troppo pochi esempi di eccellenza nella riabilitazione e nel reinserimento nella società, le prigioni brasiliane sembrano un girone dell’Inferno dantesco, dove nascono e operano organizzazioni che controllano traffici, operano mediante un sistema di franchigie tipo Mc Donald’s (non a caso, il giornalista britannico specializzato Misha Glenny ha scelto “Mc Mafia” come titolo di un suo libro reportage) e sono attivi nel mercato internazionale. E generano violenza, dentro e fuori dalle carceri. Quella “interna” è da non credere per la sua crudeltà, effetto anche della droga. In gennaio sono morte in carcere oltre 100 persone in sette giorni, e in novembre, in seguito a rappresaglie contro le forze dell’ordine, 130 persone sono state uccise in varie città nel giro di due settimane. Il governo Temer ha promesso 30 nuove prigioni. Ma per Karina Biondi, la soluzione è quella opposta: «Meno prigioni», giacché «più prigioni significano più prigionieri e bande più forti». Ciò comporterebbe ovviamente un ripensamento dalle radici del sistema punitivo-riabilitativo dei criminali, con modalità che non implichino la reclusione per delitti minori.

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