La ragazza di San Salvi

L'avventura dell'unità nel racconto di una protagonista, Giò Vernuccio. Un piccolo seme germogliato in Asia nei primi anni '60.
Giò Vernuccio

Malgrado tanto tempo trascorso fuori d’Italia, Giovanna Vernuccio non ha perso la sua cadenza fiorentina, arguta e briosa: «Mai avrei pensato – dice – di varcare i confini della mia Firenze, se non per raggiungere i luoghi delle vacanze, specie la Sicilia, di cui conservo ancora il ricordo dei colori e dei profumi».

Era appena finita la guerra e la sua adolescenza trascorreva tutto sommato serena. A 16 anni Giovanna – che ben presto presero tutti a chiamare Giò – era ricercata nelle compagnie tra i coetanei, anima delle scorribande in bicicletta lungo l’Arno. L’appuntamento con tutti era l’oratorio della parrocchia di San Salvi. Una sua amica le parlò un giorno dell’esperienza di vita evangelica di una giovane trentina conosciuta nella facoltà di medicina che frequentavano entrambe. Era Silvana Veronesi, la più giovane delle prime compagne di Chiara Lubich.

«Con Vanna del Panta – questo il nome di quell’amica – siamo stati tra i primi fiorentini ad aderire al movimento. Eravamo quasi tutti giovani, ma c’erano anche famiglie. I nostri incontri si svolgevano nel bel salotto della casa Brunori. La prima volta che vi partecipai, Silvana era a Trento per le vacanze estive. Qualcuno, non ricordo chi, disse di aver ricevuto una sua lettera. Si trattava del commento di Chiara Lubich alla Parola di vita di quel mese – “Beati voi quando vi separeranno” –, che già allora evidentemente circolava… trascritto a mano. Non saprei ora ripetere il contenuto. So solo che, mentre ascoltavo, andavo ripetendo una frase che, mi rendo conto, è assai strana: “Ho capito la logica di Dio; ora so come Dio ragiona”. Ma che cosa avevo capito? Non saprei spiegarlo.

«Tornata a casa, la mamma mi chiese di aiutarla a preparare la festa di compleanno della mia sorellina più piccola. Io le dissi di sì, per la prima volta senza metterle davanti le mie esigenze e i miei programmi. Da sotto, le mie compagne mi chiamavano per la solita passeggiata; io risposi loro che non potevo. Quel sì alla mamma, e quel no alle compagne mi dettero la stessa identica gioia. Dentro, mi risuonava la Parola che avevo appena udita: “Beati voi quando vi separeranno”. Era il 23 luglio ’49 – la data del compleanno di mia sorella – ed avevo 17 anni».

 

Nel novembre di quello stesso anno, una telefonata avvertì che Chiara, di passaggio alla stazione di Firenze, si sarebbe fermata alcune ore per incontrare la piccola comunità. «Arrivammo in anticipo al luogo dell’incontro, a casa di Elena in piazza dell’Indipendenza. Chiara entrò svelta, spontanea con i suoi bei capelli scuri e lucidi, un paltoncino marrone a doppio petto, elegante anche se un po’ logorato attorno agli occhielli. C’era un signore con lei, e subito ce lo presentò col nome Foco. Era Igino Giordani. Ci accomodammo nel salotto che, per quanto spazioso, era gremito al punto che noi, i più giovani, trovammo posto a sedere sul tappeto. Tutto era semplice, come in una famiglia, proprio come l’avrei desiderato. Fu Foco a leggerci un articolo che Chiara aveva scritto alla fine di quell’estate quando, sulle Dolomiti, aveva fatto ritorno a Roma, dopo l’esperienza di unità spirituale realizzata lassù. L’articolo iniziava: “Se io guardo questa Roma, così com’è, sento il nostro ideale lontano come sono lontani i tempi nei quali i grandi santi e i grandi martiri illuminavano attorno, con la loro luce, persino i muri di questi monumenti”. E continuava: “Lo direi utopia il nostro ideale se non pensassi a Lui che pure vide un mondo come questo che lo circondava, e al colmo della sua vita parve travolto da esso, vinto dal male”. Ecco, pensavo, è Gesù che fa sì che non sia utopia questo sogno di unità. Con Roma, anche Firenze, anche il mio piccolo mondo erano spariti. Per la prima volta, il mio cuore spaziava su orizzonti impensati».

 

Fu così che, passo dopo passo, Giò si incamminò nella nuova vita. Prima nella sua piccola scuola nel Mugello. Di quel periodo ricorda specialmente un suo alunno. Si chiamava Vasco Lascialfari. Non solo lui, ma anche i suoi numerosi fratelli e sorelle furono conquistati all’ideale dell’unità. Vasco, e dopo di lui le sorelle, Giuliana, Lucia e Miranda, avrebbero seguito la via dal focolare. «Ma io ero già a New York, dove con Silvana avevamo costituito il primo centro del movimento nel Nord America. Un’estate ero in Italia, a Valtournanche, dove si svolgeva la Mariapoli, il convegno del movimento. Un giorno Chiara mi chiese di accompagnarla alla messa. Per strada mi disse: “Sei contenta se, invece di tornare in America, vai nelle Filippine?”. “Certo, Chiara!”, le risposi, aderendo subito a quanto mi chiedeva. A casa, andai a vedere sulla cartina dov’era quello strano Paese composto da migliaia di isole, che conoscevo solo di nome…».

Era successo che un religioso verbita, padre Taschner, aveva diffuso il seme dell’ideale dell’unità qua e là nell’arcipelago filippino, e si era rivolto a Chiara. Con Giò, furono in cinque a sbarcare a Manila nel febbraio del ’66. «Per un disguido, non trovammo nessuno ad aspettarci all’aeroporto. In quel frangente un signore filippino che avevamo conosciuto durante il viaggio, con somma gentilezza, si offrì di accompagnarci con la sua macchina a destinazione. Fu il primo “impatto” con l’Oriente!».

Avevano fatto un viaggio avventuroso, che li aveva portati a soste in Pakistan, in India e in Birmania, in Thailandia. «Ci rendemmo conto allora di quanto fossimo distanti da Roma. Ma quante volte, in quegli anni, dovendo ripetere lo stesso tragitto nel ritorno a Roma per ritrovarci con Chiara e con il centro del movimento, approfittavamo per incontrare le persone che, nei modi più vari, volevano conoscerci. Ricordo ancora una giovane birmana, che era riuscita a scampare ai vietcong. Da suor Benedetta, missionaria in quel Paese, aveva conosciuto insieme il cristianesimo e l’ideale dell’unità. Con stupore venni a sapere che aveva scelto come nome di battesimo il mio, senza nemmeno conoscermi».

 

Dei primi giorni a Manila, Giò ricorda il caldo torrido, che infuocava le lamiere delle jeepneys, i caratteristici mezzi di trasporto filippini. «Sballottati da un luogo all’altro, abbiamo incontrato in questo modo centinaia di persone. Quando, dopo la prima settimana, cercammo, come si suol dire, di fare mente locale, ci accorgemmo che attorno a noi erano già sbocciate tutte le vocazioni alle varie diramazioni dell’Opera di Maria, mentre la provvidenza aveva già pensato a un inizio di casa editrice. Non ci volle molto a renderci conto che c’era un piano di Dio su questa nazione. L’invito e la benedizione dell’allora cardinale di Manila, Rufino Santos, erano stati determinanti nella decisione di stabilirci nelle Filippine». Questo Paese, cuore del cattolicesimo in Asia, era destinato a diventare un trampolino di lancio del movimento in Corea, Giappone, Thailandia, Pakistan, Singapore, India… e oltre, in Indonesia e Australia, sino alle isole Figi.

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