La questione dello stop al taglio dei vitalizi parlamentari

Una ricostruzione della complessa vicenda delle cosiddette pensioni d’oro dei parlamentari. Tra normative e giurisdizione interne alle Camere, opposizioni e polemiche sulla casta.
Camera_dei_deputati (Wikipedia)

Lo spinoso e maldigerito argomento dei “vitalizi” di cui godono gli ex parlamentari, ha avuto un ritorno di fiamma nella cronaca politica a causa di una decisione riguardante gli ex senatori, finalizzata a… cancellare la cancellazione dei vitalizi stessi. Almeno, così si è percepita. Ma se si vuole capire davvero – come per tutte le situazioni che vivono nella dimensione giuridica e sono oggetto di carte bollate, cavilli, memorie, controdeduzioni e infine sentenze -, bisogna avere la pazienza di entrarci dentro.

Allora, tutto iniziò nel 2012 (XVI Legislatura, presidenti delle Camere Fini e Schifani), quando una riforma dei Regolamenti interni di Camera e Senato abolì l’assegno vitalizio (si, l’abolizione risale al 2012) e al suo posto introdusse anche per i parlamentari, a far data dal 1° gennaio di quell’anno, il sistema previdenziale di tipo contributivo, come per tutti i dipendenti della Pubblica Amministrazione (tranne che per l’età). Ecco come funziona, secondo la spiegazione del sito del Senato: «Il diritto al trattamento pensionistico si matura al conseguimento di un duplice requisito, anagrafico e contributivo: l’ex parlamentare ha infatti diritto a ricevere la pensione a condizione di avere svolto il mandato parlamentare per almeno 5 anni e di aver compiuto 65 anni di età. Per ogni anno di mandato oltre il quinto, il requisito anagrafico è diminuito di un anno sino al minimo inderogabile di 60 anni».

Ai senatori in carica alla data del 1° gennaio 2012 viene applicato un sistema misto, pro rata: quota di vitalizio maturato al 31 dicembre 2011 e quota di pensione riferita agli anni di mandato successivo.

Restavano i vitalizi per i senatori non rieletti. Nella Legislatura successiva, la XVII, vi fu un tentativo di varare una legge per disciplinare organicamente tutti i trattamenti pensionistici di parlamentari e consiglieri regionali, in carica o cessati.

Primo firmatario e relatore, Matteo Richetti, allora PD, ora Azione; la proposta fu approvata dalla Camera ma si arenò in Senato. Insediata la XVIII legislatura, il 16 ottobre 2018 il Consiglio di Presidenza del Senato deliberò la «rideterminazione su base contributiva degli assegni vitalizi e delle quote di assegno vitalizio dei trattamenti previdenziali pro rata nonché dei trattamenti di reversibilità, relativi agli anni di mandato svolti fino al 31 dicembre 2011» (ancora dal sito del Senato).

Analogo provvedimento era stato adottato dalla Camera nel luglio precedente. L’attuazione della delibera determinò un taglio notevole degli assegni, in media del 20% ma con picchi ben più alti; risparmio quantificato: circa 67 milioni di euro l’anno tra le due Camere. Il numero dei beneficiari si aggira intorno a 850 ex senatori, cui vanno aggiunti oltre 400 familiari di deceduti.

Naturalmente la delibera fu oggetto di vibrate proteste ma soprattutto di impugnazioni, piovute copiose. Ora, a chi spettava decidere su questi ricorsi? Facciamo entrare in scena a questo punto un istituto dal nome difficile e dalla vita nascosta: l’autodichia. Espressione della autonomia delle Camere parlamentari, si sostanza nel potere di giudicare la legittimità degli atti posti in essere dalle Camere stesse, derogando così alla regola generale che invece prevede la tutela giurisdizionale anche sugli atti amministrativi. Per questa ragione è detta anche “giurisdizione domestica”.

Ecco quindi che, grazie all’autodichia, sui ricorsi presentati avverso le delibere di Camera e Senato, si sono pronunciate le medesime Camere. In particolare, il primo grado del Senato è devoluto a un organo denominato “Commissione contenziosa”, composto in tutto da sette membri, di cui tre Senatori scelti dal Presidente. L’effettiva composizione dipende però dalla materia; nel caso dei vitalizi, i tre Senatori sono affiancati da due giuristi esterni. Ebbene, il 25 giugno 2020 la Commissione contenziosa decide sui ricorsi presentati avverso la delibera del 16 ottobre 2018, accogliendoli in parte e quindi ridimensionando la portata della delibera stessa.

Il patrocinio del folto gruppo di ex parlamentari era stato assunto dall’avvocato Maurizio Paniz, a sua volta indimenticato parlamentare, che si avvalse di una robusta base giuridica costituita da due presupposti: la natura sostanziale di pensione degli assegni vitalizi degli ex parlamentari, stabilita nel 2019 dalla corte di Cassazione a sezioni unite; la sentenza della Corte costituzionale che nel 2013 aveva circoscritto all’interno di precisi requisiti la possibilità degli interventi riduttivi sulle pensioni. Alla luce di questi presupposti, i vitalizi andavano trattati come tutte le altre pensioni e quindi i tagli dovevano rispettare alcuni limiti: non essere retroattivi né senza una scadenza, essere ragionevoli nell’entità e non diretti a una sola categoria.

Benché parziale, l’annullamento fece strillare titoli del tipo “La “marcia indietro della casta sui vitalizi” e, a fianco dell’esultanza dei destinatari, provocò proteste, indignazioni e anche ulteriori ricorsi, sia per ampliarne la portata che per ripristinare la vecchia delibera (quest’ultimo da parte del Senato stesso). Dinanzi a quale organo? Al Consiglio di Garanzia, altro organismo interno, stavolta composto solo da Senatori, cinque, che “decide sui ricorsi presentati contro le decisioni della Commissione contenziosa”; in sostanza, un appello.

In realtà, già nel dicembre 2021, il Consiglio di Garanzia – sulla scorta di quanto già fatto dalla Camera – aveva imposto il ricalcolo al rialzo di tutti i vitalizi e aveva investito della questione la Corte costituzionale. Questa però non aveva potuto esprimersi in quanto l’atto rimesso alla sua valutazione non aveva forza di legge e come tale non poteva essere giudicato dal “Giudice delle leggi”.

E arriviamo così ai torridi giorni nostri. Il 7 luglio il Consiglio di Garanzia ha definitivamente annullato la delibera del 16 ottobre 2018, facendo rivivere i vecchi vitalizi. I cinque senatori si sono spaccati ma la decisione, che ha incassato due voti contrari e uno a favore, è passata grazie al sì del Presidente, che vale doppio e ad una astensione.  «Abbiamo rimesso le cose in regola […] secondo la strada tracciata dalla Corte costituzionale per i tagli alle pensioni d’oro che devono prevedere un tempo limitato di riduzione – ha dichiarato il Presidente. – Anzi, secondo questi criteri il taglio non potrebbe superare tre anni; noi siamo arrivati a cinque anni e da ottobre 2022 diciamo basta». Tra i difetti della delibera annullata, la forma: una diversa disciplina dei vitalizi, infatti, dovrebbe essere dettata con legge e non attraverso delibere.

Detto questo, non vale la pena aggregarsi al coro degli indignati. Bisogna sforzarsi di accostarsi a questi argomenti senza spirito “anticasta” ma con voglia di capire. Certo, fino a un certo punto ci sono state le vacche grasse, ma quando sono arrivate le magre, anche i vitalizi, come tutte le “pensioni d’oro”, hanno subito un ridimensionamento a termine. Importantissimo è stato il passaggio, nel 2012, ai criteri previdenziali di tipo contributivo con la fine effettiva dei vitalizi per i nuovi parlamentari, che determinerà l’esaurimento del fenomeno, accelerato anche dalla riduzione del numero dei beneficiari.

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