La prigione S-21 dei Khmer rossi

S-21, ovvero una scuola secondaria di Phnom Penh trasformata al tempo dei khmer rossi in luogo di sterminio e conosciuta come Tuol Sleng, la collina degli alberi avvelenati. Oggi è un museo della memoria. Non è facile camminare tra le celle e le camere di tortura, ma è importante per non dimenticare.
Teschi in uno dei campi di tortura dei Khmer Rossi (AP photo/Jeff Widener, File)

Aeroporto di Phnom Penh, Cambogia: salgo la scala mobile, ma la mia mente continua a vedere le foto di bambini e giovani uccisi in modo disumano: torno da una visita alla prigione S-21. Avevo letto, visto documentari e film, ma percorrere di persona le stanze di Tuol Sleng è un’altra esperienza.

Questo paese, la Cambogia, mi ha sempre affascinato: fin dall’età di 8 anni, quando vedevo i filmati dei B-52 sganciare bombe (molte delle quali ci sono ancora, inesplose) in Cambogia. Era chiamata ed è rimasta “la guerra segreta”; cinque anni di bombardamenti da parte dell’aviazione statunitense senza che il mondo ne sapesse quasi nulla.

Il tutto per fermare l’avanzata delle truppe nordvietnamite verso il Sud Vietnam, che decimavano i militari statunitensi stazionati là. Un’operazione militare che si rivelò inutile e che spinse i comunisti della Kampuchea nelle foreste per fomentare l’odio verso gli invasori.

Era la nascita dei khmer rouge, i khmer rossi, estremisti incolti, esasperati e violenti che dopo anni di vita segregata nella giungla, presero il potere in Cambogia dopo la ritirata degli statunitensi dal Vietnam: era il 17 aprile 1975.

Fu l’inizio di un incubo che durerà 4 anni e che portò allo sterminio di due milioni di cambogiani. Ad oggi si parla di 343 siti di uccisioni, 167 uffici di sicurezza, e di 74 memoriali rimasti. Ma mai si conosceranno i numeri esatti dello sterminio. Molti siti sono ormai stati mangiati dalla giungla.

Venire qui, oggi, a Tuol Sleng, è un’esperienza che fa tremare il cuore. Per arrivare alla S-21 mi sono dovuto preparare. È stato come entrare in un santuario. Filo spinato ovunque, un’aria surreale, un silenzio assordante. I visitatori sono tutti molto seri. Una guida elettronica spiega in varie lingue la storia e prepara ad una trentina di tappe.

Si consiglia di aspettare prima di intraprendere il percorso, e di mettersi a sedere sotto gli alberi. Ottimo consiglio. Guardo le foto e iniziano a tremarmi le gambe. Entro, ascolto e sosto di fronte alle foto dei prigionieri uccisi. Sono molte, eppure poche in confronto alle 20 mila persone, i cosiddetti memici politici, eliminate qui: bambini accusati di collaborare con la Cia e costretti con la tortura a fornire i nomi dei collaboratori, veri o falsi che fossero. Fatti poi a pezzi, smembrati, o lasciati morire come animali. Arrivo al capolinea con quei volti che continuano a fissarmi: donne, ragazzi, bambini e bambine, giovani. Il tempo si è fermato per me.

Non sono i robot dell’aeroporto di Singapore o le danze dei ristoranti di Bangkok. No: le foto mostrano facce di gente ammanettata, nei volti una domanda chiara, lampante: «Che male ho fatto?». Mi salgono alla mente le parole che si cantano il venerdì santo: «Popolo mio, che male ti ho fatto?». Quei volti sembrano tutti un’espressione del volto di Cristo.

Il capo-carnefice della S-21, Kaing Guek Eav, il compagno Duch, trovò rifugio in Thailandia dopo la caduta dei khmer rossi, nel 1979. Condannato all’ergastolo, è morto in carcere nel 2020 a 77 anni. Prima di morire, scoprì anche la fede cristiana e la forza interiore per piangere durante il processo e assumersi le sue responsabilità, chiedendo perdono. Per mano sua, si pensa che siano morte tra le 12 e le 16 mila persone, qui alla S-21: torturate, fatte a pezzi, lasciate morire in modo orribile.

A Tuol Sleng, al secondo piano dello stabile C, ci sono delle piccole camere: qui ho dovuto fermarmi. Era il luogo di sosta prima della morte. Ho accarezzato i vetri dei ritratti con i volti dei condannati: mi guardavano ed ho avuto la forte sensazione che dicessero: «State attenti, perchè il demone della guerra continua il suo cammino di morte. E quanto è accaduto a noi, continua anche oggi». Myanmar (a pochi chilometri da qui), Ucraina, Yemen, Sudan, e quanti altri luoghi ancora?

Dopo circa 3 ore esco dal museo: ho parlato anche con un superstite (al tempo aveva 8 anni, oggi è un uomo con moglie e figli) liberato dalle truppe vietnamite nel 1979. Prima di uscire mi sono inginocchiato, ho deposto una piccola ghirlanda su una tomba ed ho pregato.

In questi 40 anni, i cambogiani hanno ripreso a fatica un cammino di riconciliazione nazionale, ed hanno bisogno di solidarietà e di credere che esiste un futuro migliore, senza guerra e senza dimenticare.

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