La più antica icona mariana

È custodita nella chiesa di Santa Francesca Romana al Foro romano. La storia della sua scoperta è avvincente come un “giallo”  
Basilica di San Francesca Romana foto di Jebulon - Opera propria, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=29201419
Pochi lo sanno, nascosta com’è in una sagrestia fra altri dipinti di soggetto sacro, ma l’effige mariana che si ammira a Roma nella chiesa di Santa Maria Nova, meglio conosciuta come Santa Francesca Romana, perché vi riposa il corpo della santa, è la più antica icona rimastaci della Madonna, risalendo al primo quarto del V secolo a.C. Non conoscevo affatto la sua esistenza e l’affascinante vicenda ad essa legata se non avessi avuto modo di intervistare nel 1990 Pico Cellini, il famoso restauratore che la scoprì al di sotto di un più tardo dipinto, morto nel 2005.
Al momento dell’intervista, colui che era considerato il decano dei restauratori italiani contava 84 anni ed era ancora attivo nella sua bella casa romana in via Monte Zebio, dove aveva anche il laboratorio: un ambiente pittorescamente ingombro di tele danneggiate dal tempo o dall’uomo, frammiste a busti, rilievi, vasi antichi; a una profusione di pennelli, colori, solventi e altri attrezzi, misteriosi agli occhi di un profano.  Figlio di Giuseppe Cellini, noto pittore e colto latinista, nipote di quell’Annibale che illustrò con splendide miniature la Bolla Ineffabilis Deus di Pio IX, Pico Cellini era uomo di vasta cultura, che si muoveva con la stessa disinvoltura tra figure del passato remoto o più recente, e di radicata fede.

È difficile dire chi gli avesse procurato più sofferenze o più consolazioni: se le creature in carne ed ossa o quelle, dipinte, a migliaia passate sotto le sue dita esperte. Una cosa è certa: davanti all’opera d’arte da restaurare si pose sempre come di fronte ad una realtà vivente, non senza aver premesso una richiesta d’aiuto dall’alto per ben condurre a termine il delicato compito.  Uomo di buon senso, dalle soluzioni pratiche, le sue intuizioni in campo artistico, il suo andare al cuore dell’opera affidata alle sue cure nascevano non dall’erudito pedante, ma dallo studioso che ben conosceva la concretezza della materia. Abbastanza umile da tenersi in ombra, mentre altri magari raccoglievano dove non avevano seminato sulla scorta delle sue fatiche. Del resto, sapeva bene che un restauratore è innanzitutto un artigiano, il quale tratta opere non sue, che però contribuisce a far risplendere di nuova vita.

Molti i meriti della sua carriera (fra l’altro fu il primo ad introdurre in Italia la tecnica, oggi usuale, della radiografia preliminare ad un restauro). E molte anche le avventure. Una, senz’altro, eccezionale: e fu la scoperta appunto, avvenuta nel ’50, della più antica icone conosciuta della Madonna. Ecco, così come lo ricordo, il racconto da lui fatto di quell’evento che poté dirsi veramente unico, pur in una carriera lunga, varia e fruttuosa come la sua. «Correva l’Anno Santo del 1950 quando dal soprintendente, prof. Achille Bertini‑Calosso, ricevetti l’incarico di restaurare l’antica icone della Vergine che si venera nella chiesa di Santa Francesca Romana, ai margini del Foro. L’immagine, molto rimaneggiata e ridipinta lungo i secoli, era in pessimo stato: fra l’altro, i volti della Madonna e del Bambino tendevano a staccarsi dalla tavola. Quale studioso di immagini mariane e profondamente devoto della Madonna, fui ben felice di occuparmi di quel restauro, e per meglio attendere al compito affidatomi, ottenni di portare l’icone a casa mia. Qui, prima di incollare l’immagine al supporto, volli verificare se era vero, come sospettavo, che la causa del distacco fosse da ricercare in uno strato sottostante di pittura diverso per natura e colore.
«Con infinita cura riuscii a staccare i bordi dei due volti, che stranamente apparivano isolati rispetto al resto del dipinto, e una volta sollevato quella specie di coperchio, per poco non mi prese un accidente: sotto la testa della Vergine ne emerse infatti una seconda, enorme, con due grandi occhi dallo sguardo ipnotico. Era il volto, mirabilmente intatto, di un’immagine molto più antica di quella attribuita all’inizio del XIII secolo, che traspariva sotto le grossolane ridipinture ottocentesche: per la tecnica ad encausto su tela di lino ed altre caratteristiche che non sto qui ad elencare, fui in grado di datarla addirittura al primo quarto del V secolo…».
Essa – spiegò Cellini – rispecchiava una tecnica raffinatissima e una committenza prestigiosa, quella della stessa corte imperiale di Bisanzio: era una immagine carica di arte, di fede e di storia giunta in Occidente attraverso chissà quali tumultuose vicende. «Spesso mi son chiesto come mai questa Madonna produce una tale emozione, specie in chi la contempli per la prima volta. La spiegazione, forse, è in quei grandi occhi dalla pupilla dipinta in nero, colore che – secondo i canoni dell’arte ellenistica – indica il limite della conoscenza. Quello di Maria non è uno sguardo rivolto all’esterno, ma è tutto interiore: attinge l’abisso dell’inconoscibile, in cui dimora la divinità, abisso che lei sola vede.
«Di qui il turbamento di una creatura limitata e peccatrice come me, che mi reputo un modesto “otturabuchi”, al quale però è capitata un’avventura di quelle che non si ripetono nella vita. Davanti a quegli occhi che riflettono – così m’è venuto da dire – tutte le sofferenze e speranze delle generazioni passate, altri hanno disquisito. Io ho pianto». Non tutti, va detto, accettarono le conclusioni del Cellini, a proposito della datazione dell’immagine. La soluzione di un problema così complesso richiedeva del resto la convergenza di ulteriori dati, raccolti da vari campi di studio: storia, filologia, archeologia, topografia, antichità pagane e cristiane, patristica…
A tale impresa appunto si accinse la professoressa Margherita Guarducci, non nuova ad indagini su reperti che, noti da secoli, hanno invece rivelato novità sorprendenti. In breve, la studiosa osservò come l’icone apparsa alla luce presentasse caratteristiche che si ritrovavano stranamente in un’altra icone famosa, ritenuta perduta: quella della Madonna “Hodigìtria” di Costantinopoli, creata nel 438‑39 quale tipo ufficiale di Maria Madre di Dio, proclamata tale dal Concilio di Efeso (431).
In quella immagine era riprodotta una copia ingrandita, quale si conveniva alla nuova definizione di Madre di Dio, del “ritratto” mariano attribuito all’evangelista Luca, fatta realizzare in Palestina – ad encausto e su disco ligneo – e da Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II. Notevole il fatto che le dimensioni dell’icone costantinopolitana corrisponderebbero a quelle romane.
Ma c’è di più: pare che i sovrani dell’Occidente portassero a Roma, sempre nel 439, una copia su tela della Hodigìtria, eseguita sull’impronta rovesciata – ottenuta per calco speculare – dell’originale: ciò che è confermato dalla posizione, nella immagine romana, del Bambino sul braccio destro della Madre, invece che sul sinistro, come è normalmente rappresentato. Proseguendo le sue ricerche, la Guarducci si imbatté in una splendida ed enorme icone mariana esistente a  Montevergine, celebre santuario dell’Avellinese. L’opera, eseguita tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, raffigura la Madonna in trono col Bambino e presenta una particolarità: la testa di Maria è  leggermente sporgente dal resto della tavola e inclinata verso chi osserva dal basso. Come mai?

 

Esami condotti tra il ’60 e il ’61 accertarono che essa è dipinta su un disco di legno di tipo diverso dal resto della tavola, e che dal dipinto medievale traspaiono tracce di una pittura più antica. E in effetti una tradizione risalente al ’500 vuole che questa sia l’autentica testa della famosa Hodigìtria, trafugata da Baldovino II, ultimo imperatore latino d’Oriente, allorché fuggì da Costantinopoli nel 1261. Ma allora, se l’icone romana era di essa la copia speculare, una eventuale perfetta coincidenza delle due teste (rovesciando, evidentemente, la prima) non avrebbe reso meno leggendario l’episodio di
Baldovino? Fu ciò che appunto risultò dal confronto effettuato dal Cellini. Il volumetto La più antica icone di Maria, edito dal Poligrafico dello Stato, che con ricchezza di dati, documenta la singolare scoperta, non ha linguaggio, così rigidamente scientifico da non leggersi con gusto e da non trasmettere l’emozione dell’autrice. La quale così conclude: «A Montevergine rimane la testa autentica della Hodigìtria, se pure sotto il velo della pittura medievale; a Roma splende la medesima testa, nella copia fedele che subito ne fece, “in controparte”, un grande artista di Costantinopoli. Fra Oriente e Occidente si pone ora, quale prodigioso vincolo di pace, la più antica icone di Maria, che dell’Oriente e dell’Occidente ha ricevuto, per tanti secoli, la fervida preghiera»

 

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