La pace è un dono, una sfida, un impegno

Il discorso di papa Francesco ai diplomatici accreditati presso la Santa Sede è particolarmente ricco di richiami e apre prospettive importanti nell’attuale scenario internazionale

Il tradizionale incontro della prima settimana di gennaio fra il Papa ed il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede si è svolto quest’anno in un momento delicato della situazione mondiale. Il conflitto siriano con le continue speranze ed altrettante delusioni per la pace, il retrocedere dello Stato islamico sul territorio ma i suoi costanti colpi di coda in terre dell’occidente, le incognite della nuova presidenza Trump che comincerà a giorni, il ruolo della Russia di Putin sullo scacchiere mondiale, ma anche la crisi delle due Coree, la situazione instabile nelle Filippine e gli accordi ancora traballanti nella Colombia dei Narcos, per non parlare dell’Europa dei Brexit e delle elezioni presidenziali della prossima primavera in Francia e quelle non lontane della Germania fanno sì che il mondo, a qualsiasi latitudine non possa dormire sonni tranquilli. Oggi non c’è angolo del pianeta che possa sentirsi sicuro dalla violenza, dal terrorismo di diverso tipo o guerre e conflitti diversi. Il tutto nel contesto dei processi migratori – quelli che spaventano l’Europa sono solo una frazione di un movimento colossale – che interessano il mondo intero.

In questo contesto, ricordando che un secolo fa il mondo era nel pieno del Primo conflitto mondiale, il papa ha esordito chiarendo le sue intenzioni di dedicare l’incontro al tema della sicurezza e della pace, «poiché – ha affermato – nel clima di generale apprensione per il presente e d’incertezza e di angoscia per l’avvenire, nel quale ci troviamo immersi, ritengo importante rivolgere una parola di speranza, che indichi anche una prospettiva di cammino». Nel quadro della Giornata della Pace che ha appena celebrato il suo cinquantesimo anniversario, il giorno di Capodanno, papa Francesco ha espresso «il vivo convincimento che ogni espressione religiosa sia chiamata a promuovere la pace». È stata – come ha confermato lui stesso – la Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace, tenutasi ad Assisi nel settembre scorso, che ha dimostrato come i rappresentanti delle diverse religioni possano ritrovarsi per «dar voce insieme a quanti soffrono, a quanti sono senza voce e senza ascolto». D’altra parte la pace ed il ruolo che le religioni ed i loro fedeli possono avere per la sua costruzione e per la prevenzione dei conflitti era stata al centro di varie delle visite fuori Roma che Bergoglio ha compiuto nel 2016. Basta ricordare l’Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian. Nonostante gli sforzi di molti, tuttavia, la lista di tragedie folli che hanno visto la religione coinvolta, anche solo di nome, è lunghissima ed ha disegnato una geografia che sembra risparmiare solo qualche angolo del pianeta, almeno per ora. Il papa ha definito questi episodi tragici che hanno mietuto vittime a centinaia come «una follia omicida che abusa del nome di Dio per disseminare morte, nel tentativo di affermare una volontà di dominio e di potere».

Qui incontriamo il primo nodo fondamentale del discorso del pontefice. Il ruolo dei leaders religiosi e di quelli politici che può essere efficace solo se caratterizzato da un impegno comune, sia pure con ruoli specifici e ben distinti. «Ai primi spetta il compito di trasmettere quei valori religiosi che non ammettono contrapposizione fra il timore di Dio e l’amore per il prossimo. Ai secondi spetta garantire nello spazio pubblico il diritto alla libertà religiosa, riconoscendo il contributo positivo e costruttivo che essa esercita nell’edificazione della società civile», oltre a far sì che possano essere evitate le condizioni sociali che offrono terreno fertile per il dilagare dei fondamentalismi. Il richiamo di Bergoglio alle autorità civili è stato, dunque quello di combattere la povertà, di valorizzare la famiglia, come luogo privilegiato della maturazione umana, oltre che assicurare i debiti investimenti in ambito educativo e culturale. Per questo è importante una collaborazione concreta fra i punti di riferimento religioso e civile.

Ritornando al tema della pace, il papa ha chiarito il suo pensiero, definendola una virtù attiva”. Lavorare per essa non significa solo limitarsi a garantire la sicurezza dei propri cittadini – concetto che può facilmente ricondursi ad un semplice “quieto vivere”. L’impegno deve essere comune e coinvolgere gli organi di potere e amministrativi come pure i leaders religiosi e i singoli cittadini. Leaders politici e religiosi sono quindi co-protagonisti nel grande ‘cantiere della pace’ per usare una terminologia cara a Giovanni Paolo II. Qui sta una delle verità che nel giro degli ultimi anni si è imposta in un mondo che, da un lato, almeno in occidente ma non solo, pare essere sempre più indifferente alla religione ed in balia della secolarizzazione, ma, dall’altro, segna quello che i politologi descrivono come la ‘vendetta di Dio’ o il ‘ritorno della religione dall’esilio’. Papa Francesco, insistendo su questo binomio, conferma questo fenomeno ormai oggetto di studio e considerazione da parte di analisti politici di tutti gli angoli della terra. La religione, infatti, non solo è rientrata nello spazio pubblico, ma si è re-iscritta all’agenda dei rapporti fra gli stati.

Una ulteriore categoria che papa Francesco ha introdotto a livello di analisi politologica è quella del perdono e della misericordia. Infatti, ha detto, «edificare la pace» vuol dire anche esercitare la giustizia con «il perdono», proprio come hanno fatto alcuni capi di Stato o di governo, accogliendo l’invito di Bergoglio «a compiere un gesto di clemenza verso i carcerati». Ma non solo perdono. Alla conclusione del Giubileo straordinario della Misericordia, papa Francesco non poteva non proporre anche la misericordia «come un valore sociale», che necessita ora della tessitura di una cultura adeguata di misericordia che permetta di «costruire società aperte e accoglienti verso gli stranieri e, nello stesso tempo, sicure e in pace al loro interno».

Ovviamente non era possibile per Francesco evitare di affrontare l’aspetto che maggiormente caratterizza questa fetta di storia: i processi migratori. Qui il discorso di Bergoglio ha coniugato senso della realtà, prospettiva storica e precedenti, senza far alcuno sconto ad una posizione chiara e senza compromessi. «Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche – ha chiarito il papa – non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione. Soprattutto non si può ridurre la drammatica crisi attuale ad un semplice conteggio numerico. I migranti sono persone, con nomi, storie, famiglie e non potrà mai esserci vera pace finché esisterà anche un solo essere umano che viene violato nella propria identità personale e ridotto ad una mera cifra statistica o ad oggetto di interesse economico».

Sebbene questi siano stati i punti nevralgici dell’articolato intervento di papa Francesco, non possiamo negare che il discorso di quest’anno abbia davvero spaziato su tutti i punti che richiedevano di essere affrontati. Parlando della Siria, per esempio, il pontefice ha insistito sulla necessità che la comunità internazionale si adoperi «per dare vita ad un negoziato serio, che metta per sempre la parola fine al conflitto, che sta provocando una vera e propria sciagura umanitaria». Ha, inoltre, ancora una volta condannato ‘il deprecabile’ commercio delle armi e la continua rincorsa a produrre e diffondere armamenti sempre più sofisticati. Ha invitato a riprendere il dialogo sulla questione israeliano-palestinese per arrivare ad una pacifica coesistenza di due stati all’interno di confini riconosciuti a livello internazionale. Ed, infine, non ha mancato di rivolgersi al ‘Vecchio Continente’ invitando ad aggiornare l’idea di Europa: un incoraggiamento e stimolo significativo ad un mondo – quello europeo – che si sforza di uscire da una crisi economica infinita ma che, attanagliato da paure di diverso tipo, è anche in forte debito di identità.

 

La geopolitica bergogliana prende sempre più forma e si fonda sempre più su una lettura antropologica profondamente capace di coniugare la dimensione umana a quella divina, senza nulla escludere dell’essere umano. «La pace è un dono, una sfida e un impegno. Un dono perché essa sgorga dal cuore stesso di Dio; una sfida perché è un bene che non è mai scontato e va continuamente conquistato; un impegno perché esige l’appassionata opera di ogni persona di buona volontà nel ricercarla e costruirla. Non c’è, dunque, vera pace se non a partire da una visione dell’uomo che sappia promuoverne lo sviluppo integrale, tenendo conto della sua dignità trascendente, poiché «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», come ricordava il beato Paolo VI.

 

Un discorso importante, quello di Bergoglio, che lo pone ancora una volta come un punto di riferimento importante, forse unico nell’attuale panorama geopolitico mondiale che manca di figure credibili e capaci di leggere l’evolversi della storia prospettando vie nuove per un cammino sicuro dell’umanità nei prossimi decenni. Papa Francesco, eletto per portare una riforma profonda nella Chiesa, ha decisamente allargato, nel corso di questi pochi anni di pontificato, l’orizzonte della sua influenza positiva e credibile al mondo intero, non solo religioso, ma anche civile, politico e sociale.

 

 

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