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La pace di Washington non ha bisogno della diplomazia

di Bruno Cantamessa

- Fonte: Città Nuova

Bruno Cantamessa Autore Citta Nuova

L’annuncio alla Casa Bianca dopo l’incontro fra Trump e Netanyahu: il Piano di Pace di Trump per Gaza, in 20 punti, è stato accettato da Netanyahu. Ad Hamas viene concesso qualche giorno per aderire. Nessun altro è stato interpellato: prendere o lasciare.

Un momento della fiaccolata organizzata da Music for Peace a Genova, 27 settembre 2025. ANSA/EMILIE LARA MOUGENOT

Venerdì 26 settembre, all’Onu, Benjamin Netanyahu ha declamato i meriti della sua politica di giustizia umanitaria che mentre combatte strenuamente il terrorismo, aiuta i palestinesi a salvarsi dalle bombe (israeliane) fuggendo da Gaza-City. Ha anche rivelato che il suo governo si è sempre preoccupato di far entrare cibo e acqua nella Striscia. Non è colpa sua – ha detto in sostanza – se molti non hanno potuto sfamarsi: è Hamas che si appropria sistematicamente degli aiuti per poi “venderli” al mercato nero ai civili palestinesi. 

Fin dalle prime battute del premier israeliano, un centinaio di diplomatici escono platealmente dall’aula: sono i rappresentanti di molti Paesi arabi, diversi africani e alcuni europei. La delegazione turca pare abbia guidato i dissidenti. Non sono rimasti iraniani, somali e pakistani. E i brasiliani mentre uscivano hanno indossato la kefiah, il tipico copricapo palestinese. Se ne sono andati anche gli spagnoli. E i rappresentanti dei Paesi occidentali che si apprestano a riconoscere lo Stato di Palestina – Australia, Canada, Francia, Regno Unito – forse non erano neppure entrati.

Ad ascoltare Netanyahu, oltre a quella degli Stati Uniti c’erano le delegazioni di Russia, Cinae Corea del Nord. Anche la delegazione italiana è rimasta in aula.

Netanyahu ha parlato per 45 minuti difendendo le sue ormai note tesi giustizialiste e accusando ben più di mezzo mondo di antisemitismo. Ma la frase chiave che ha declinato più volte, hanno rilevato molti, è stata: «Vogliamo finire il lavoro a Gaza il più velocemente possibile». Una frase che mette i brividi, ma non a lui, se ci si sofferma anche solo un istante sul suo significato. Un “lavoro” (job) che appare come completamente estraneo alle migliaia di mortali “effetti collaterali” e perfino allo sterminio dei miliziani di Hamas: sembra solo un lavoro, un compito e nient’altro.

Pochi giorni dopo, il grande annuncio di Trump del Piano di pace in 20 punti, che il premier israeliano ha lealmente accolto. Veramente i punti sarebbero stati 21, ma Netanyahu ha chiesto di toglierne uno, solo uno: il riconoscimento dello Stato di Palestina.

Un piano di pace che non ha naturalmente alcun bisogno del parere dei cittadini palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, ma neppure di quello degli israeliani non allineati con il loro governo, compresi i parenti degli ostaggi o i cittadini arabo-israeliani senza voce. Ha pensato a tutto il tycoon insieme ai suoi collaboratori: basta che Hamas accetti e scoppierà la pace. E se non accetterà la colpa sarà tutta e solo sua. Compresi i massacri di Netanyahu, ovviamente.

Al Piano Trump, che promette “pace eterna”, sono completamente estranei i concetti di diplomazia, dialogo, consenso e bene comune. Non è difficile immaginare che se Hamas lo accetterà, lo farà solo perché è arrivata come si suol dire alla frutta. In caso di rifiuto, però, Trump ammonisce che «Israele avrebbe il pieno sostegno statunitense per portare a termine il lavoro di distruzione della minaccia». Effetti collaterali compresi.

A parte le condizioni e i tempi previsti dal Piano, che concedono qualche spiraglio, complessivamente vengono in luce l’invisibilità della popolazione palestinese e lo show dell’unico artefice: Trump. Un autentico one man show che dice ben poco di nuovo rispetto al progetto della “Riviera di Gaza”.

Esaminando da vicino i 20 punti si rileva qualche piccola-enorme carenza, soprattutto sul futuro del popolo palestinese, come: dopo la resa di Hamas chi gestirà la Striscia saranno gli americani con l’aiuto di un Board of peace presieduto da Trump, con altri membri che saranno annunciati (da lui, ovviamente); l’Autorità Nazionale Palestinese resterà marginale e bisognerà rifarla da capo secondo quanto già indicato da Trump nel 2020; il controllo di polizia sarà affidato agli Usa che cercheranno di coinvolgere Giordania ed Egitto per formare una Forza Internazionale di Stabilizzazione (Isf) temporanea; la ricostruzione di Gaza sarà elaborata da Trump che convocherà un gruppo di esperti internazionali di chiara fama (e a lui graditi); ma la cosa più grave è che trattandosi di un Piano per Gaza non c’è una sola parola sulla Cisgiordania. Uguale a: via libera agli insediamenti.

Nonostante ciò, le reazioni positive sono numerose, prevalentemente improntate al principio: purché si fermi il massacro in corso. Emblematico il commento a caldo di papa Leone XIV: «Ci sono elementi molto interessanti… spero che Hamas accetti nel tempo stabilito».

Perfino l’Autorità Nazionale Palestinese «accoglie con favore gli sforzi sinceri e determinati del presidente Trump per porre fine alla guerra a Gaza e… fiducia nella sua capacità di trovare una via verso la pace».

Sul Piano Trump c’è anche una dichiarazione congiunta di otto Paesi arabi, tra cui Arabia Saudita, Giordania e Qatar (oltre a Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, ed Egitto), che si dicono pronti a «cooperare positivamente», a condizione che Trump si impegni a non consentire l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Per l’Europa, consenso espresso da Macron, Starmer, Meloni e Merz. Vale a dire alcuni tra i principali firmatari del riconoscimento dello Stato di Palestina e alcuni tra i contrari, di fatto, a quel riconoscimento.

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