La notizia che uccide

66 i giornalisti assassinati nel mondo nel 2011. In Italia le vittime di minacce sono 324. Un mestiere sul filo del rasoio.
Giornalisti

Una casta di mercenari della parola al soldo di gossip, intercettazioni, scandali, violazioni della privacy e di atti giudiziari. Può essere tutto qui il giornalismo? Un arraffa, mordi e fuggi dove la carriera facile, la fama, il profumo dei soldi hanno alterato ogni relazione tra verità e notizia?

 

Eppure ci sono giornalisti che scrivono e muoiono. Muoiono per descrivere ciò che vedono e che non dovrebbero. Nel 2011 sono stati 66 i giornalisti uccisi e più di tremila i feriti, rapiti, minacciati e torturati perché la parola, scritta o parlata, ha alterato gli equilibri del potere, della menzogna, del malaffare.

 

Scomodi

 

Abdisalan Sheikh Hassan è l’ultimo della lista. Assassinato in Somalia perché scomodo. Gli hanno sparato perché era in possesso di una registrazione: aveva filmato l’incontro di alcuni politici somali che si erano riuniti per espellere il portavoce del Parlamento, una mossa non gradita ad alcuni parlamentari. Un uomo armato di kalashnikov che indossava la divisa militare del governo somalo federale lo ha freddato mentre era in macchina con alcuni colleghi vicino al suo ufficio. La sua colpa? In molti gli avevano chiesto la cassetta di quella registrazione che Hassan non ha voluto fornire. «Siamo scioccati da questa ultima tragedia che dimostra, ancora una volta, che i nemici della libertà di stampa in Somalia sono pronti a sparare e uccidere i giornalisti», ha dichiarato l’Organizzazione internazionale per la libertà di stampa.

 

Hassan è uno dei 66 giornalisti uccisi nel mondo nel 2011, secondo i dati forniti da il Barometro della libertà di stampa redatto da Reporters sans frontières. Nel 44 per cento dei casi sono stati assassinati, nel 19 per cento sono caduti in guerre e scontri a fuoco, nel 37 per cento in occasioni di scontri durante manifestazioni. «In generale – si legge in una nota di Reporters sans frontières –, il 2011 è stato un anno difficile per la libertà di stampa e di informazione. La Primavera araba è stata al centro delle notizie di attualità. Dei 66 giornalisti assassinati nel 2011, 20 sono stati uccisi proprio in Medio Oriente (il doppio rispetto al 2010). Una cifra simile si è registrata in America latina, una regione molto esposta alla minaccia della violenza criminale. Per il secondo anno consecutivo, è il Pakistan la nazione più cruenta con un totale di dieci giornalisti deceduti, per lo più assassinati. Cina, India ed Eritrea continuano ad essere le prigioni più grandi per la stampa».

 

La libertà di stampa fa paura

 

Dal 1992 ad oggi i giornalisti uccisi sono stati 890 e il 58 per cento di loro si occupava di politica. Del resto, l’intreccio tra verità e potere, tra libertà di stampa e verità ufficiale, tra connivenze e autocensure, è sempre stato controverso. Il mestiere di scrivere non contempla né eroi né salvatori della patria, ma per la sua semplice necessità di aderire alla realtà corre sul filo del rasoio. I cronisti nel mirino lavorano spesso nell’anonimato e sono motivati dalla passione per la propria gente, che vogliono servire con notizie attendibili e verificabili. E la libertà di stampa fa ancora paura in molti Paesi del mondo. La Cina si è allarmata per la Primavera araba e per le proteste che corrono incontrollabili sui mezzi di comunicazione. Sebbene la Costituzione del 1982, attualmente in vigore, recita nell’articolo 35 che ogni cittadino gode della libertà di stampa e di espressione, una legge successiva sui segreti di Stato, definiti ad arte in modo vago, restringe la libertà di stampa entro la solita norma della salvaguardia degli interessi statali.

 

Il risultato è che solo quest’anno 30 giornalisti sono stati arrestati. Liu Xianbin, veterano dell’attivismo politico e scrittore, è stato condannato a marzo a dieci anni di carcere per sovversione. Il cronista di una tivù locale, Wen Tao, è stato rapito dalla polizia ed è scomparso nel nulla. La municipalità di Pechino ha addirittura comprato la proprietà del Beijing News per portare il quotidiano più letto della capitale sotto il suo diretto controllo.

 

In Sudafrica è stata approvata una legge bavaglio che prevede dai cinque ai 25 anni di carcere per chi pubblica informazioni segrete. Anche qui, il segreto di Stato ha contorni vaghi ma molto ampi, per cui il giornalismo d’inchiesta, che si basa sulla conoscenza di documenti segreti, rischia di scomparire. La nuova legge ha stravolto l’equilibrio fra libertà di parola e protezione dei dati sensibili.

 

Pericolo centroamericano

 

Un’altra area ad alto rischio per chiunque voglia intraprendere la carriera di giornalista è il Messico. Secondo il Knight center for journalism in the Americasquest’anno sono stati uccisi dieci giornalisti e numerosi sono stati gli attentati con colpi di pistola, granate e bombe. Un gruppo armato formato da 15 persone ha ricoperto di benzina un intero edificio con 20 persone all’interno, prima di dargli fuoco a Cordoba, Vera Cruz, nella costa orientale del Messico. Era la sede del giornale El buon tono che ha chiuso i battenti temporaneamente per i danni dell’incendio. Il motivo? Il giornale non aveva avuto i toni giusti contro il sindaco locale e la sua amministrazione.

 

Ulteriori segni di deterioramento si stanno verificando nella regione e nello Stato di Santo Domingo: un reporter di 59 anni, José Augustín Silvestre è stato rapito e ucciso. Proprietario del giornale La voce della verità e conduttore dell’omonimo programma su Cana Tv, aveva più volte denunciato la corruzione e la delinquenza locale. Silvestre aveva anche scontato in carcere lo scorso maggio una sentenza che lo ha condannato per diffamazione e calunnia contro il procuratore di La Romana, Josè Polanco, accusato di connivenze con il mondo della droga. I cinque assassini, legati al trafficante di stupefacenti Matías Avelino Castro, accusato in un articolo del giornale di Silvestre di essere il mandante di un omicidio di un uomo d’affari locale, sono stati arrestati.

 

Dalla Cina al Messico fino alla Russia dove il Committee to protect journalists ha appurato la morte certa, negli ultimi 17 anni, di almeno 53 giornalisti per motivi legati alla loro professione. L’ultima vittima: Gadzhimurad Kamalov, 46 anni, fondatore del settimanale indipendente Chernovik, il giornale più popolare in Dagestan, stimato per le denunce contro la corruzione del governo, le violazioni dei diritti umani e i radicalismi islamici. Il nome di Kamalov era comparso in una lista di 16 giornalisti condannati a morte, pubblicata anonimamente e distribuita a mano in Makhachkala due anni fa. Dove ora la sentenza di condanna a morte è stata eseguita.

 

Nel Bel Paese

 

In Italia, oltre i casi eccellenti di cronisti come Roberto Saviano, Lirio Abbate e Rosaria Capacchione rappresentanti di una dozzina di giornalisti che vivono sotto scorta, l’osservatorio “Ossigeno per l’informazione” monitora i giornalisti vittime di minacce: 324 nel 2011, su tutto il territorio nazionale.

 

«Il primo obiettivo – spiega la redazione di Ossigeno – è quello di verificare numero e distribuzione sul territorio dei cronisti minacciati, per tracciare un’anagrafe delle situazioni a rischio corredata dalla descrizione delle cause e delle dinamiche. Il secondo obiettivo è quello di promuovere nelle sedi pubbliche e istituzionali, e in particolare all’interno della categoria dei giornalisti, una attenta riflessione sui caratteri del problema e sui possibili rimedi».

 

In Italia, infatti, si lavora troppo spesso in condizioni di sfruttamento e precariato, senza tutele giuridiche, e le vittime di minacce sono di frequente giovani che raccontano la realtà. Sono giornalisti del tutto sconosciuti che trattano cronaca locale, sono gli eroi per caso della quotidianità, come il recente caso di Rosaria Malcangi di Ruvo di Puglia, oggetto delle attenzioni dei soliti ignoti che hanno ben pensato di depositare sotto la sua abitazione una bomba carta che ha causato solo danni materiali non ingenti. Il motivo è sconosciuto. «Sono veramente sorpresa di questo attentato – racconta Rosaria Malcangi –, non faccio inchieste, solo cronaca e fatti avvenuti sotto casa. Le mie notizie sono sempre verificabili e verificate dai lettori che spesso sanno le cose prima di me». E la cronaca locale ha anche aspetti positivi perché «diventi un punto di riferimento per la comunità, soprattutto per quelli che non hanno voce». Ma ne vale la pena?

 

«Il nostro – spiega Rosaria – è un servizio pubblico per il bene comune, anche se il nostro è ancora un sistema feudale applicato al XXI secolo. Vengo retribuita cinque euro al pezzo per 20 centimetri di spazio. Ma in fondo con questa bomba mi hanno fatto un regalo perché è cresciuta la mia sensibilità verso i colleghi in tutto il mondo oggetto di minacce». L’Italia può tirare ancora il fiato con gente così!

 

Norme da cambiare

 

L’opinione di Franco Siddi, segretario generale della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa italiana, il “sindacato” dei giornalisti.

 

Spesso i casi di minacce avvengono al Sud. Conosce dei casi di minacce al Nord e in che forma avvengono?

«Nelle regioni del Sud la pressione è più evidente e più oscura allo stesso tempo per la presenza di mafie che infangano la bontà di tutto il territorio, perché la grande maggioranza della popolazione è onesta. Ma ci sono anche casi di minacce al Nord. Lettere di minacce, querele, cause civili temerarie, denunce, bossoli arrivano anche al Nord per giornalisti spesso non protetti».

 

È ancora maggiore il numero dei giornalisti conniventi con il potere, magari sanzionati dall’Ordine, ma che continuano a scrivere, oppure di quelli che si autocensurano per timori di ritorsioni violente, reali o presunte? Quale dovrebbe essere l’etica di un giornalista?

«Ci sono casi di giornalisti che ricevono notizie inquinate che fanno l’interesse di chi le ha fornite. Si è creato così un sistema per fare carriera. Gli ordini giornalistici sono intervenuti ma è molto difficile stabilire delle prove perché nel diritto conta di più la forma che la sostanza. Per l’autocensura bisogna aiutare chi si sente solo. Una redazione deve essere pronta a scrivere al posto di chi è sottoposto a censura o costretto ad autocensurarsi. Noi offriamo la nostra casa, come Fnsi, per vincere la battaglia della notizia, perché questi giornalisti non devono essere lasciati soli. L’etica del giornalista è sempre la stessa: la responsabilità e l’adesione al principio sacro della notizia da offrire con lealtà al cittadino, con la terminologia giusta, per alimentare conoscenza».

 

Cosa si potrebbe fare per garantire una maggiore tutela al lavoro giornalistico, un più esteso servizio di assistenza legale e di lotta al precariato?

«Come Fnsi abbiamo creato un fondo di solidarietà che viene usato per i colleghi in necessità di tutela legale. La battaglia, però, è politica e civile. Bisogna cambiare le norme per le cause per diffamazione perché bisogna sempre difendere il più debole. Chi fa una causa civile temeraria e chiede ad un giornalista una cifra di risarcimento, deve versare una cauzione del 30 per cento al tribunale. Se la sentenza non dà luogo a sanzioni, la cauzione vada a risarcimento del danno causato al giornalista ingiustamente denunciato».

 

Quali riforme legislative che garantiscano il diritto-dovere dei giornalisti di fornire le informazioni all’opinione pubblica e, allo stesso tempo, il diritto dei cittadini di essere informati sarebbero necessarie?

«Occorre limitare il segreto sulle notizie. Oggi abbiamo consigli comunali che deliberano in segreto, negano la visione dei verbali pubblici. Si accusano, poi, i giornalisti di essere dei violatori del segreto di atti giudiziari. È vero, ma accade perché non c’è un sistema trasparente. È meglio dare un tempo stabilito alle notizie coperte da segreto ma dopo diventino pubbliche. Occorre, comunque, recuperare credibilità nell’informazione fornendo notizie vere e verificate. Una notizia sbagliata può fare più male di una pistola».

 Aurelio Molè

 

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