La ‘ndrangheta in Piemonte

La capillare infiltrazione del sistema mafioso, lo sgomento della gente, l’uso sociale dei beni confiscati. Le reazioni di un territorio al crimine
Giancarlo Caselli

Centottanta ordinanze di custodia cautelare in carcere, di cui 151 già eseguite. Beni sequestrati da carabinieri e guardia di finanza, aziende, ville, appartamenti, terreni e alcune centinaia di conti correnti, per oltre 117 milioni di euro. Un panorama di connivenze con la politica di qualsiasi colore, e di condizionamenti dell’economia a tutti i livelli, ma soprattutto quella legata ai grandi appalti. Un panorama che emerge in migliaia, più di 2.500, di pagine dell’ordinanza di custodia cautelare con le intercettazioni a testimoniare di una prassi radicata e funzionante. L’operazione “Minotauro” è stata condotta dalla Procura di Torino, coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di Torino con 1.300 militari impegnati, quattro anni di indagini, pedinamenti e intercettazioni che hanno portato a un’operazione, durata tutta la notte, che ha interessato non solo Torino e provincia, ma anche altre zone del Piemonte, la Lombardia, la Liguria e la Calabria.

 

L’inchiesta della Procura era partita da un omicidio di chiaro stampo mafioso e dalle rivelazioni di due pentiti, Rocco Varacalli e Rocco Marando. In carcere per associazione di tipo mafioso, traffico di sostanze stupefacenti, porto e detenzione illegale di armi, trasferimento fraudolento di valori, usura, estorsione ed altri reati, sono finiti personaggi legati al mondo della criminalità organizzata calabrese, piccoli imprenditori e alcuni insospettabili. Tra questi c’è anche il segretario comunale di un comune dell’hinterland torinese, Rivarolo Canavese: secondo l’accusa, il tramite tra i capi delle ’ndrine del torinese e un candidato alle elezioni europee del 2009. E poi Nevio Coral sindaco del comune di Leinì, ora retto dal figlio, per molti anni, proprietario di una grossa azienda che ha sedi anche europee, suocero dell’ex assessore alla Sanità della Regione Piemonte, Caterina Ferrero poche settimane fa finita tra gli indagati dell’ennesimo scandalo della sanità.

 

Il sistema usato è quasi banale: alle ’ndrine torinesi facevano riferimento decine di politici alla ricerca di voti. In cambio piaceri di ogni sorta: soldi, un tot a voto, ma soprattutto promesse di appalti in caso di elezioni. E ancora una sistematica azione di taglieggiamento delle imprese locali, le edili prima di tutto: chi non pagava, o non accettava le regole imposte dalla ’ndrangheta, non solo non lavorava, ma subiva danni e minacce, anche personali.

«L’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica – ha spiegato nella presentazione dell’operazione, Giancarlo Caselli procuratore capo di Torino – dà a quest’inchiesta un risvolto inquietante. Il voto di scambio avveniva a qualsiasi livello». E non solo Caselli ha ricordato che la ‘ndrangheta a Torino nel giugno del 1983 uccise il suo collega Bruno Caccia.

Dal Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sono giunte lodi all’operazione a testimonianza di quanto aveva riferito non più tardi di un mese alla Biennale della democrazia che si era tenuta proprio a Torino citando la relazione della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia che riportava che :«La ‘Ndrangheta nel nord Italia vive e prospera, intriga con la politica, condiziona l’economia. Una costante e progressiva evoluzione che radicata da tempo su quei territori interagisce con gli ambienti imprenditoriali e non solo lombardi».

 

Il territorio Da anni la presenza del crimine organizzato in nord Italia è radicata, e molte sono le operazioni condotte in Lombardia e Liguria, e per il Piemonte, interessato da grandi appalti e opere infrastrutturali, ci sono enormi possibilità di riciclaggio e di occultamento nell’economia legale. Già il caso di Bardonecchia è significativo: Rocco Lo Presti morto il 23 gennaio 2009 era arrivato a Bardonecchia nel 1963 riuscendo nel giro di pochi anni a prendere il controllo del piccolo comune piemontese, noto per le sue piste da sci, facendone un paradiso del cemento facile, del riciclaggio di denaro, della corruzione politica. Nel 1995 fece poi scalpore lo scioglimento del consiglio comunale di Bardonecchia, primo comune del Nord sciolto per infiltrazione mafiosa, e lo scorso marzo toccò alla vicina Bardonecchia in Liguria.

 

La gente C’è sgomento e incredulità tra la gente piemontese, abituata al lavoro serio, al rispetto delle istituzioni, ma c’è anche una certa paura e diffidenza: se la ’ndrangheta che uccise Caccia (per l’omicidio è condannato all’ergastolo Domenico Belfiore e nel 2007 i beni della famiglia, tre anni dopo la confisca da parte dello Stato, sono stati assegnati ad uso sociale), era quella che si faceva vedere e volutamente attaccava le istituzioni nemiche, oggi questa ‘ndrangheta sommersa è quella che viene definita “mafia liquida”, che si inserisce ovunque in silenzio con un’infiltrazione, magari lenta, mai eclatante ma avvolgente e che colpisce al cuore, e che tocca azienda per azienda, appalto per appalto anche piccoli, e va a cercare l’appoggio non dei grandi nomi della politica ma di ognuno dei consiglieri comunali anche dei piccoli comuni.

 

Gli appalti Secondo la Direzione nazionale antimafia: «la ‘ndrangheta, in Piemonte, è presente nel settore del traffico internazionale di sostanze stupefacenti, nel riciclaggio e nell’infiltrazione nel settore dell’edilizia, grazie anche ad una rete di sostegno e copertura di singole amministrazioni locali compiacenti. Il progressivo radicamento nella regione ha favorito la loro graduale infiltrazione del tessuto economico locale, mediante investimenti in attività imprenditoriali ed il tentativo di condizionamento degli apparati della pubblica amministrazione, funzionali al controllo di pubblici appalti. Appare quest’ultimo, in sostanza, il nuovo settore d’interesse, condotto attraverso attività più difficili da investigare perché riconducibili all’area apparentemente legale dell’economia ma che nasconde, in realtà, reati come il riciclaggio, la corruzione, l’estorsione, la concorrenza illecita e così via. Sotto tale profilo risultano particolarmente sensibili all’infiltrazione mafiosa i comparti commerciali, degli autotrasporti ed immobiliari. Ad essi si aggiunge quello dell’edilizia che consente, attraverso imprese operanti soprattutto in lavorazioni a bassa tecnologia, di condizionare il locale mercato degli appalti pubblici“.

 

La politica Le penetrazioni negli apparati della Pubblica Amministrazione anche in Piemonte, rappresentano uno dei canali privilegiati della criminalità mafiosa per allargare il campo delle sue redditizie attività. Sempre dalla lunga relazione si rileva che i soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta o comunque ad essa riconducibili, mantengono stretti legami con le famiglie mafiose d’origine, soprattutto in Calabria, ma ciò non impedisce a chi opera nel territorio piemontese di avere una certa libertà di movimento e di poter intrattenere rapporti di collaborazione nell’ambito delle attività criminali con altre cosche di diversa provenienza che operano anche esse in Piemonte.

 

Uso sociale dei beni sequestrati In Piemonte, a Volpiano una cascina confiscata alla ’ndrangheta è sede dei vigili del fuoco e nucleo cinofilo; a Volvera un’altra cascina sottratta a Vincenzo Riggio è gestita dall’Associazione per l’educazione alla legalità, che la sta bonificando dall’amianto; un appartamento è usato dalla Caritas. A Moncalvo d’Asti ancora una cascina confiscata è stata destinata a centro per donne tossicodipendenti, il progetto “Rinascita donne” con un centro studi e formazione per la promozione della cultura della legalità e del territorio, un polo per lo sviluppo di attività lavorative agricole e commerciali che produce occupazione per le persone e il territorio e una cooperativa sociale. Uno dei più rilevanti patrimoni confiscati nel Nord si trova, però, a San Sebastiano da Po, nel torinese. A Domenico Belfiore, uomo dei Piromalli, l’esproprio ha riguardato un immobile di circa mille metri quadrati (oltre a 10 mila di terreno). Oggi è presidiata dall’Associazione comunità famiglia, legata al gruppo Abele di don Luigi Ciotti, che è anche presidente di Libera, che ha inserito cinque nuclei familiari.

Il riutilizzo dei beni per scopi sociali è stato uno dei progetti degli amministratori piemontesi della precedente Giunta Bresso. Il Consiglio regionale, il 5 giugno 2007, ha approvato all’unanimità con la legge 14 la destinazione di fondi per la realizzazione dei progetti di recupero dei beni confiscati ai mafiosi. Il 29 gennaio 2008 è stata approvata la delibera con cui si rende attuativa la legge.

 

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