La montagna che accoglie

Le "Alpi aperte" laboratorio di politiche di integrazione. La storia del "Coro moro" e l'impegno dei Comuni per l'inserimento di migranti nelle comunità delle Terre Alte
Coro moro

"La montanara" e "La bergera" sono tipici brani musicali piemontesi. Raccontano storie di montagna, di persone che sono salite e scese dai pascoli in altura costruendo opportunità, famiglie, imprese. Storie d'altri tempi, in musiche di un secolo fa. Pochi i giovani piemontesi che li conoscono. Difficili da riscoprire. Ma se oggi a risvegliare quelle melodie semplici, a riportarle sul palco, sono rifugiati e richiedenti asilo, significa che sono ancora portatrici di un successo che fa bene a chi canta e a chi ascolta. Un trionfo per quei giovani del "Coro moro", gruppo vocale composto da una ventina di rifugiati nelle Valli di Lanzo – le aree montane più vicine a Torino – che si sono buttati in un'avventura capace di far scuola in Italia. Negli ultimi giorni hanno macinato centinaia di chilometri tra Piemonte e Val d'Aosta. Palchi diversi li hanno accolti e applauditi. Tutti brani cantati in piemontese, alcuni in francoprovenzale, "lingua madre" ancor più difficile del dialetto. Merito delle comunità di Ceres, Pessinetto, Mezzenile, dove sono ospiti da diversi mesi, delle associazioni che li seguono, di tanti cittadini che non li abbandonano, li incoraggiano nelle loro attività, trovano loro occasioni di lavoro. E rendono meno lontani Senegal, Ghana, Eritrea, Nigeria. 

«Il Coro Moro è una straordinaria occasione di integrazione – non nasconde Marino Poma, uno dei volontari nelle Valli di Lanzo, ex amministratore comunale -. Vale la pena di seguirlo nelle sue avventure, non solo per la musica e i brani che esegue, con qualità, ma perché quell'integrazione fa bene alla montagna, alle nostre comunità e non solo». La Storia ci dice che le terre alte si svilupparono nella fase delle ‘Alpi aperte’, nella quale l'incrocio tra attraversamenti e popolazioni stanziali produsse l'insediamento montano giunto sin qui. «E la storia stessa dei montanari è storia di migrazioni, di scambi, di integrazioni. Quando la montagna si apre e si relaziona, cresce. Quando si arrocca e si chiude, perde», evidenzia l'on. Enrico Borghi, sindaco, deputato e presidente nazionale dell'Uncem, l'Unione dei Comuni e degli Enti montani. Vietato parlare di invasione o di emergenza dunque. I dati (Istat elaborati per Fondazione Montagne Italia) sono chiarissimi: in Italia la presenza degli stranieri media è l'8,25 per cento con punte in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Umbria, Toscana e Lazio; in montagna, al 31 dicembre 2014, è inferiore, ferma al 6.23 per cento. «Le percentuali – prosegue Borghi – ci dicono che in montagna un quinto degli stranieri vive e lavora e chiede la presenza di servizi, genera impresa e va opportunamente orientata. È un fenomeno sociale da capire e interpretare per chi ha responsabilità politiche e amministrative. Di certo chi oggi parla di invasione sbaglia, insegue ridicole propagande populiste e lo fa senza dati statistici. I numeri descrivono una situazione diversa, ed una evoluzione sociale già in corso che ha bisogno di accompagnamento da parte della politica». 

Non solo. «La presenza di stranieri, regolari, con documenti e permessi – prosegue il deputato – determina una sostanziale modifica nell’offerta di servizi e nelle dinamiche legate al mondo del lavoro nelle Terre Alte. Si tratta di un fenomeno recente. Nell'Appennino emiliano non si produrrebbe parmigiano reggiano senza la presenza di immigrati di origine indiana; in alcune aree del Piemonte, proprio i figli di immigrati nei Comuni montani hanno permesso di salvare scuole e la loro integrazione ha portato a scambi culturali dove non è secondario l’impegno di parrocchie e di altri enti religiosi. In questa coesione della comunità, le aree montane del Piemonte, purtroppo con alcune eccezioni, possono essere un modello».

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