La mitezza, una strada per la felicità

Nella cultura dell’aggressività e della violenza che caratterizza spesso la vita di oggi, la mitezza appare una virtù “fuori moda”. Eppure è proprio in un atteggiamento mite che risiede la vera felicità. Nel libro 8 vie per la felicità Erlin spiega come vivere la mitezza e quali benefici effetti produce
8 vie per la felicità_copertina

La terza beatitudine definisce la mitezza come via per la felicità. Miti sono coloro che sanno controllare i loro impulsi di rabbia e di ira.

In modo equivoco si può pensare che miti siano coloro che non sentono il desiderio di vendetta, quelli che vivono nella piena pace di spirito con se stessi e con gli altri. Ma ben difficilmente incontreremo persone di questo tipo. La virtù non sta nell’assenza di impulso di voler risolvere le cose con le proprie mani, ma nel controllo.

È mite chi possiede il dominio di sé, chi sa ponderare.

Attraverso il profeta Isaia, Dio ci dice che la salvezza sta nella calma: «Poiché così dice il Signore Dio, il Santo d’Israele: “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza”» (Is 30, 15).

La conversione e la calma camminano insieme, poiché se i nostri comportamenti fossero mossi semplicemente dagli impulsi non potremmo essere considerati immagine e somiglianza di Dio. La conversione consiste nella presa di coscienza costante che siamo più che semplici animali, abbiamo la capacità di scegliere, siamo liberi.

Il testo biblico ci dice ancora che la nostra forza sta nella calma e nella fiducia. La calma (o quiete) è legata alla fiducia. Non si tratta della quiete fisica, ma spirituale, del dono totale di sé a Dio. La forza è questa capacità interiore di superamento, di andare oltre.

Quando ci irritiamo con qualcuno e replichiamo, senza aver prima soppesato la questione, e tentiamo di risolvere il problema in modo esplosivo, la bomba che esplode sembra alleviare la nostra rabbia, ma le conseguenze ci accompagneranno per giorni o per mesi. Il senso di colpa per la sofferenza causata all’altro non ci darà pace. E peggio: può produrre nell’altro una piaga profonda, che porta a mancanza di perdono o a “falso rispetto”, prodotto non dall’amore ma dal timore. Questo generalmente accade con chi ha una qualche autorità. Se chi ha compiti direttivi e di governo non ottiene il rispetto grazie a un modo carismatico di fare il leader, agirà in modo autoritario, frutto di insicurezza.

[…]

Oggi, in generale, viviamo sull’orlo di una crisi di nervi. Imponiamo alla nostra mente e al nostro corpo un ritmo giornaliero che non è quello naturale. Ogni giorno è fatto di 24 ore, ma questo tempo ci pare insufficiente per tutto quello che intendiamo fare. Abbiamo da rendere conto, dobbiamo correre, realizzare, essere intraprendenti, non ci possiamo fermare.

Ci sentiamo utili tanto quanto corriamo.

Oggi la mitezza sembra essere in contrasto con l’elasticità che il mondo richiede. I nostri comportamenti presi d’impulso riflettono le risposte rapide che dobbiamo dare quotidianamente. Nella maggior parte dei casi, i nostri attacchi di rabbia, ira, mancanza di pazienza sono frutto del poco tempo dedicato a noi stessi.

Fermarsi, pensare, riflettere, respirare sono atteggiamenti associati con il verbo “ricreare”, che significa crearsi nuovamente. Soltanto fermandoci riusciamo a sistemare le piccole e grandi collere che il nostro essere così fragile accumula con il passare degli anni.

La mitezza è viva soltanto nelle persone capaci di autocontrollo. Ma è impossibile avere il controllo di sé senza conoscersi, e nessuno si conosce se non ha il tempo di osservarsi. Una cosa dipende dall’altra. Non basta dire: «Il mio proposito per quest’anno è di vivere la mitezza» se dentro di noi sentimenti e impulsi ribollono senza che sappiamo cosa fare con essi.

Più che domandarci: «Cosa sto sentendo?», è più terapeutico chiedersi: «Perché sto sentendo questa cosa?». La risposta non sarà facile, ci vuole molto coraggio per ammettere certe cose che ci riguardano. Possiamo dire, nel tentativo di ingannarci: «Ma io non so quello che mi sta accadendo». Mentiremo.

Sappiamo sempre cosa sta succedendo, conosciamo il nome e il cognome del problema, ma ammettere che proviamo questo o quello può dare l’impressione che non siamo sufficientemente capaci (peccato di vanità, di immagine che abbiamo di noi stessi). Così è più facile coprire i sentimenti con un velo pietoso e convincerci che siamo vittime di qualcosa che non possiamo dominare.

Per questo si usa dire che le persone che vivono con noi, spesso, ci conoscono bene, poiché gli altri sono capaci di vedere in noi cose che noi non vogliamo vedere. Quando gli amici e i parenti sono sinceri e vogliono il nostro bene, ci potranno dire: «Sto osservando qualcosa in te…». E questo potrà avvenire nella misura in cui saremo aperti, in cui desideriamo crescere. Tuttavia il timore della verità che in generale proviamo fa sì che teniamo a distanza quelli che potrebbero aprirci gli occhi.

Quando non riusciamo ad aprirci all’altro, a rispettare le sue idee, ad accettarlo come lui è, è segno che non riusciamo ad aprirci, a rispettare e ad accettare.

La mitezza è una manifestazione esterna della relazione che abbiamo con noi stessi.

Da Luís Erlin, 8 vie per la felicità, le beatitudini, Città Nuova 2013. Per acquistare il libro clicca qui

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