“La mia esperienza di insegnante di sostegno”

Da Perugia in dialogo con il Professor Giuliano Ruzzier, laureato in filosofia ed Etica delle relazioni, docente a Perugia, nella scuola secondaria di secondo grado.

Professor Ruzzier, lei ha la possibilità di svolgere un lavoro delicato con ragazzi in difficoltà, come riesce ad accompagnarli nel loro percorso di sviluppo?
In quest’ultimo anno ho prestato servizio come insegnante di sostegno. Ho avuto la possibilità di seguire diversi ragazzi che avevano difficoltà a venire a scuola. Non avevano delle certificazioni particolari, ma vivevano delle situazioni di carattere familiare particolari per cui preferivano rimanere a casa, anziché frequentare la scuola.

Concretamente, a motivo di un bisogno specifico certificato nel consiglio di classe, un ragazzo o ragazza viene affidato ad una o più figure di supporto, il cui compito è quello di entrare in relazione con loro. Per me è stata un’esperienza nuova, pur avendo tanti anni d’insegnamento alle spalle. Per essere veramente di aiuto a questi ragazzi, per instaurare un valido aiuto ho capito che dovevo sparire nel gruppo perché anziché essere uno strumento di aiuto, diventavo una presenza che evidenziava le loro fragilità. Si trattava di trovare una dinamica di relazione più vasta sia con gli altri compagni che con i docenti delle altre materie. Perciò mi sono trovato a insegnare italiano, matematica, filosofia chimica, storia, a studiare certe materie che non facevano parte del mio percorso di formazione. Questo per essere sia per loro che per i docenti di vero aiuto.

Certamente non è stato facile
Io insegno ai liceali. Il primo passo è stato quello di trovare la chiave per iniziare una relazione in modo semplice, ma concreta con l’insegnante di classe. Per fortuna ho avuto dei colleghi che mi hanno veramente accolto con apertura, serenità e mi hanno dato un ruolo all’interno della classe e dell’azione didattica per cui ho potuto lavorare con gruppi di ragazzi che mi erano particolarmente affidati.

È riuscito a sbloccare la situazione in qualche allievo?
Penso a un giovane che non aveva nessun tipo di relazione con gli altri. Io tendo a non etichettare nessuno per la sua certificazione, perché penso che, malgrado degli elementi di gravi fragilità, anche un problema che socialmente può essere riconosciuto come un deficit, se vissuto i un certo modo può diventare punto di forza non solo per sé stessi, ma anche nella dinamica del piccolo o grande gruppo sociale in cui queste persone sono inserite. Anche essere diversamente dotati, è veramente un grande dono di Dio, una grande potenzialità. Per questo motivo non nomino il tipo di difficoltà che i ragazzi hanno.

Quel ragazzo di cui parlavo non aveva relazioni con i propri compagni. Questa era una situazione che caratterizzava il suo modo di essere, anche il suo grado inferiore d’istruzione era evidenziato nella sua certificazione.

Un’altra relazione era quella con la famiglia alla quale ho fatto presente che incrementare le sue competenze relazionali era molto importante. Siccome aveva molte potenzialità, tranne che in una materia, ho capito subito che la mia figura poteva non essere bene accettata, perché aveva un bisogno relativo dal punto di vista didattico. Anche dal punto di vista relazionale, non potevo essere io ad aprirlo alla socialità, essendo un adulto. Quindi l’unica via per aiutarlo era il gruppo dei pari.

Lì ho sperimentato che nella misura in cui entravo in relazione con tutti i compagni potevo essere di aiuto anche per lui. Penso che sia una delle qualità della professione di qualsiasi docente poter riuscire in questa attenzione generalizzata del gruppo, raggiungere anche quel caso particolare, specifico. Ognuno di noi ha delle qualità che non rientrano nello standard. Tutti hanno dei bisogni specifici. Bisogna avere uno sguardo molto largo.

Effettivamente questa è stata una buona chiave per riuscire nell’arco di alcuni mesi a cambiare l’atteggiamento chiuso di questo ragazzo. L’abbiamo visto alzarsi dal banco, uscire durante l’intervallo, mentre prima era sempre fermo, bloccato.

È stato un lavoro delicato mettere per esempio in luce le sue capacità. Quando gli dicevo: posso far vedere agli altri il tuo disegno? Se lui era d’accordo, lo mostravo agli altri, sempre in accordo con la docente di classe naturalmente e piano piano i compagni si sono accorti delle tante capacità che aveva. E quando hanno capito che potevano trovare in lui un aiuto, hanno scoperto che potevano rivolgersi a lui, che era un ragazzo simpatico con delle doti da tirar fuori.

Prima lo evitavano?
No, ma purtroppo i ragazzi di oggi vivono una vita individuale o in gruppi differenti fra loro, è facile trovare qualcuno che venga isolato senza che gli altri ne accorgano. Il più delle volte ci troviamo in gruppi indifferenti fra loro, ma non se ne rendono conto. Penso che gli anni di pandemia abbiano influito molto.

Ci siamo dovuti in qualche modo arrangiare con tanti mezzi didattici, comunicativi, relazionali che ci hanno aiutato a non perdere il contatto, ma ci hanno anche portato in una sorta di menzogna relazionale. Hanno difficoltà a esprimersi trovando una situazione che alimenta le difficoltà invece di aiutare a superarle.

Ora questo ragazzo è autonomo?
Sì, sono obiettivi lunghi da raggiungere, ma in certi ambiti in cui era più fragile, alcuni compagni lo hanno aiutato. L’obiettivo più importante non è tanto l’aiuto in un particolare momento, quanto riuscire a generare un effetto educativo generativo, cioè che i ragazzi acquistino una maggiore consapevolezza di sé e che, contemporaneamente, li porti ad essere un punto di riferimento per gli altri.

Quando ci troviamo difronte a ragazzi fisicamente, psichicamente invalidanti, pensiamo di trovarci di fronte a persone che hanno bisogno. E ciò le fa sentire bisognose, le umilia. Invece se noi crediamo nel loro potenziale, inizieranno a guardare alla realtà e ciò le porterà a cambiare molto a seconda di come noi le guardiamo. Qui è importante il nostro linguaggio, il nostro atteggiamento, come ci moviamo, quali gesti, sguardi ecc.

Se un ragazzo è mancino io mi metto dalla parte della mano che lavora, non difronte a lui o dall’altra parte per non chiudere la sua visuale. Sono tante le cose che noi adulti possiamo fare. Prima dare l’esempio. Anche riguardo all’ordine in classe, devo essere io il primo a raccogliere quella carta, quella bottiglia di plastica, ecc. Poi loro imparano spontaneamente… Noi insegnanti di sostegno, pur avendo un ruolo specifico, dobbiamo “impastarci” nelle loro situazioni.

La famiglia di questo ragazzo come ha reagito?
Sono stati molto contenti ed hanno anche cambiato consuetudini nel modo di agire, lo hanno lasciato preparare da solo le sue cose. Adesso sto per lasciare questo lavoro di sostegno. L’esperienza più significativa l’ho vissuta con un giovane con espressioni molto invalidanti nel linguaggio. La cosa più bella è stata capire che al di là delle forme, si può sempre trovare una relazione. Chi fra noi due è stato quello che ha fatto più lavoro? Lui. Ha trovato dei modi per comunicare che io non avrei mai raggiunto probabilmente. La vita e l’esperienza superano qualsiasi grado di formazione che si ottiene dai libri.

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