La magistratura che verrà

Una legge miracolosa: è riuscita a unificare in un rifiuto radicale tutti i magistrati, notoriamente divisi in correnti molto distanti fra loro per cultura e sensibilità. Il primo dicembre la Camera ha approvato in via definitiva la legge delega sull’ordinamento giudiziario. I lavori erano iniziati all’apertura della legislatura, e l’approvazione arriva dopo due passaggi alla Camera, due al Senato e tre scioperi dei magistrati. Ma che cosa contiene di tanto scottante? Città nuova ha dedicato vari interventi all’argomento, in corso d’opera, e un esame più approfondito si potrà fare dopo che il presidente Ciampi avrà firmato la legge. Ha trenta giorni di tempo per farlo, ma da più parti sono stati sollevati dubbi sulla costituzionalità di alcune norme e non è escluso che la massima autorità dello stato rimandi la legge alle Camere sollecitando la modifica di alcuni punti specifici. Ancora, l’Associazione nazionale dei magistrati potrebbe ricorrere alla Consulta su un punto particolarmente debole della nuova legge: quello che consente al ministro della giustizia di ricorrere al Tar, qualora non fosse d’accordo col Consiglio superiore della magistratura circa la nomina dei capi degli uffici giudiziari; i magistrati vi vedono, infatti, un’ingerenza del potere politico sull’ordine giudiziario che la Costituzione esclude. La nuova legge introduce, anzitutto, la separazione della funzione del giudice da quella del pubblico ministero. Stabilisce un meccanismo di concorsi per ottenere l’avanzamento di carriera, che attualmente procede per anzianità. Conferisce un grande potere al procuratore capo, che potrà, ad esempio, togliere ad un pubblico ministero l’inchiesta sulla quale sta lavorando. Vengono definiti con precisione gli illeciti nei quali il magistrato può cadere e diventa obbligatoria l’azione disciplinare contro il magistrato. È istituita una Scuola superiore della magistratura, con relativi corsi di aggiornamento obbligatori. Abbiamo chiesto al giudice Giovanni Caso il suo parere su alcuni punti che hanno particolarmente infiammato il dibattito. Il dott. Caso, dopo quarantuno anni di magistratura, è attualmente presidente onorario della Corte di Cassazione. Presidente Caso, tra gli argomenti del dibattito uno era diretto contro la magistratura, definita come una casta: come risponde? È falso che la magistratura oggi costituisca una casta; all’opposto essa è espressione dell’intera società civile. Personalmente provengo, come tanti altri colleghi, da una famiglia che per generazioni si è fondata sui valori civili e sul lavoro tenace e onesto (i miei antenati erano agricoltori del Mezzogiorno; mio padre ha servito lo stato). Con la Costituzione del 1948 – che resta nei suoi princìpi una espressione di alta civiltà giuridica e politica – e con le leggi attuative si è data la possibilità ai giovani di tutte le classi sociali, studiosi e meritevoli, di accedere alla magistratura. Questa possibilità è una ricchezza a favore di tutta la società; e non va persa. Purtroppo, già attualmente c’è difficoltà nella preparazione per il concorso (parecchi candidati frequentano corsi privati, che si tengono a Roma e in qualche altra città, e ciò evidentemente non è nelle possibilità di tante famiglie). Inoltre, con i meccanismi di selezione e di avanzamento in carriera, che si vogliono introdurre, si tende a gerarchizzare la magistratura. Al riguardo bisogna tenere presente che i magistrati, in base all’art. 107 della Costituzione, si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni (un giudice di tribunale non amministra meno giustizia di un giudice di corte d’appello o di un giudice di cassazione). La selezione di una categoria di magistrati per ceto e la loro gerarchizzazione, questo sì farebbe della magistratura una magistratura di casta che per affinità culturale e sociale si immedesimerebbe con certe categorie sociali. I magistrati sono però contrari anche all’introduzione dei concorsi per ottenere gli avanzamenti di carriera. Ma è possibile permettere le promozioni soltanto per anzianità, senza un vaglio delle capacità professionali? È vero che l’attuale avanzamento è per anzianità, ma per avanzare da giudice di tribunale a giudice di corte d’appello – il primo passaggio – i magistrati sono sottoposti ad un rigoroso vaglio della loro professionalità, operato da due organi: il Consiglio giudiziario che si trova presso le corti d’appello, e che sottopone il magistrato a una valutazione che guarda a tutta la sua attività: la diligenza, la preparazione tecnico-professionale, la laboriosità, l’onestà, la stima che gode nell’ambiente: dunque, tutti gli aspetti del suo lavoro e la sua personalità; e, successivamente, il Consiglio superiore della magistratura, che decide sull’avanzamento. Ma un avanzamento in carriera e l’attribuzione delle funzioni che avvenissero, come la riforma prevede, solo per titoli ed esami ed attraverso una valutazione periodica da parte di una Scuola superiore, si baserebbero prevalentemente sull’aspetto tecnico-giuridico: fare un concorso significa presentare dei titoli, sostenere delle prove. Ora, bisogna tenere presente che non solo l’aspetto tecnico- giuridico, ma anche le qualità morali e intellettuali fanno un buon giudice: l’indipendenza e l’equilibrio nel giudizio, il senso giuridico, il buon senso. Altro punto di forte contrasto è la separazione delle funzioni dei magistrati: il giovane magistrato dovrà indicare se vorrà fare il pubblico ministero (accusa) o il giudice; dopo cinque anni, tale scelta diventerà definitiva. La separazione delle funzioni esiste già. Quello che si vuole, in realtà, è dividere il corpo della magistratura – che in base alla Costituzione è unitario – in due corpi separati (quello dei giudici e quello dei magistrati del pubblico ministero). Ciò porta inevitabilmente all’indebolimento della magistratura e della sua indipendenza. Chi sostiene questa separazione fornisce due motivazioni. La prima è quella di voler impedire l’uso politico della magistratura. Ma questo è falso: il rischio dell’uso politico non solo resterebbe, ma sarebbe aggravato: un corpo dei pubblici ministeri, che ha l’enorme potere di promuovere l’azione penale, separato dai giudici sarà meno indipendente dal potere politico. La seconda motivazione sostiene che una magistratura unita può favorire una certa influenza dei pubblici ministeri sui giudici nel processo. Assicurare la parità tra accusa e difesa nel processo e la posizione di terzietà del giudice è più che giusto, ma ciò si deve ottenere con adeguate norme processuali, che consentano uguale accesso al giudice sia da parte del rappresentante dell’accusa che da parte della difesa. Oggi qualunque richiesta del pubblico ministero non condiziona affatto i giudici. Domani, con il corpo del pubblico ministero più facilmente legato al potere politico, una richiesta del pubblico ministero potrebbe mettere il giudice sul chi va là e condizionarlo; egli potrebbe chiedersi: chi c’è dietro questa richiesta? viene dal potere politico? Pilato insegna: ha tradito il suo dovere nel momento in cui gli hanno detto: ti denunciamo a Cesare.

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