La luce di Cristo illumina tutti

Pubblichiamo per esteso l'intervento che il fondatore della Comunità di Sant'Egidio, ha svolto durante la Terza Assemblea Ecumenica Europea di Sibiu, Romania, il 7 settembre 2007.

Beatitudine, Eminenze, Eccellenze, Signore e signori, care sorelle e fratelli, i cristiani d’Europa hanno in questi giorni a Sibiu, una grande occasione per guardare insieme il nostro continente nel mondo. Dieci anni fa, a Graz era caduto il muro da non molto. Era ancora un’ora di entusiasmo! Oggi il mondo è cambiato. Qua e là c’è una dose di scetticismo anche su questa assemblea: a che serve?

Abbiamo di fronte domande grosse. Ce le pone il mondo. Ci obbligano a guardare al di là di noi: come rinnovare la vita dell’Europa, avanzare nell’unità, essere nel mondo una presenza umana ed evangelica… e poi quale sarà il mondo di domani (e certo sarà un mondo meno europeo e meno dominato dall’Europa). Invece spesso ci si limita a guardare al nostro paese o alla nostra comunità. Ogni comunità ha i suoi problemi ovviamente. Ma non basta.

Le sfide di oggi si colgono su vasti orizzonti. Il mondo globalizzato richiede uno sguardo largo. Non uno sguardo appiattito sui modelli di una cultura globalizzata. C’è bisogno di uno sguardo cristiano, audace, capace di uscire dal particolarismo che è paura del mondo e sfiducia nella forza del Vangelo. Gesù, presso il pozzo di Giacobbe, in terra di samaritani, dice ai discepoli presi da piccole discussioni: “Levate i vostri occhi e guardate i campi ” (Gv 4, 36).

Vorrei provare a levare gli occhi e guardare i campi del mondo. Lo vorrei fare, consapevole della limitatezza della mia esperienza, da cristiano europeo, da storico, da viaggiatore della vicenda del mondo, portato, specie dall’esperienza della Comunità di Sant’Egidio, a contatto con tante terre di povertà. 

A paragone con tante parti del mondo, balza agli occhi un’Europa ricca di risorse. Tra queste soprattutto la pace: l’eredità preziosa di sessant’anni di pace. Nel Novecento, tra le due guerre mondiali sono passati solo vent’anni. Poi tornò la guerra nel 1939. Io, italiano, nato nel 1950 – così dico pure la mia età -, nella mia vita mai ho conosciuto la guerra nella mia terra. Non è la storia dei miei genitori o dei miei nonni. È il gran dono della pace.

Dall’abisso della seconda guerra mondiale, gli europei hanno appreso finalmente quanto è stolto combattersi. Quanti anni rubati a donne, bambini, uomini da guerre stolte, violenze inaudite, stragi! Dall’abisso della seconda guerra mondiale, gli europei hanno capito: mai più gli uni contro gli altri e sempre più gli uni con gli altri!

Da qui il processo di unificazione europea. L’89 ha cancellato l’eredità di divisione del 1945. La liberazione dal comunismo è avvenuta con una forza non armata a confronto con regimi fondati su violenza e coercizione. Purtroppo ci sono state anche le guerre nella ex Iugoslavia.

Però oggi, nel nostro continente, c’è la pace assieme a un benessere diffuso (con punte molto alte in alcuni paesi, con più o meno forti aree di povertà). La pace e il benessere… La pace europea può apparire ai giovani normale, ma è straordinaria nella nostra storia secolare. È una benedizione di Dio e un dono santo!

Ma che fare di questa eredità di pace? Si profila la tentazione di dissiparla, come per le eredità di grande valore: la si dissipa vivendo per se stessi e non amando la vita. Vivere per se stessi spesso conduce a non amare la vita, a disprezzarla, specie quando è povera, debole, nascente, anziana. I nostri paesi possono essere tentati di vivere per se stessi nella risorgente passione nazionalistica.

È una posizione antistorica: la gran parte dei paesi europei, piccoli o medi, non possono affrontare da soli le grandi sfide del mondo, l’islam, il confronto con le economie e le civiltà dei grandi paesi asiatici come la Cina e l’India. Le passioni nazionalistiche oggi nascono non tanto dalla volontà di dominio sugli altri, ma dal desiderio di vivere per sé.

In altro modo si dissipa la pace, eredità di tanti dolori e fatiche del Novecento: un’Europa fortezza, che innalza mura alle frontiere. Ma, se si elevano le mura per difendersi, torneranno i demoni del Novecento, quelli delle lotte fratricide. Le mura nascono dalla paura di un mondo divenuto troppo grande, con troppi protagonisti, dinamici e forti.

La nostra storia europea non è stata quella di una fortezza, ma di estroversione dal continente: siamo stati curiosi e interessati al mondo. Fu storia conquistatrice dell’imperialismo con conseguenze negative, storia missionaria.

L’Europa non può diventare un’isola protetta come una fortezza. Noi europei siamo tentati di ritirarci dalla storia: magari dicendo di voler fare del male come in passato. Siamo preoccupati. Non siamo più quello che fummo. C’è declino: lo illustrano le proiezioni demografiche.

Ma c’è anche un vuoto di visioni del futuro. Spesso la politica è ridotta al realismo del governo finanziario. Negli ultimi decenni, l’Europa ha visto consumarsi idee politiche e sociali: l’utopia, l’ideologia marxista, il socialismo, idee di cambiare la società… Tutti sono divenuti più cauti e prudenti nel pensare il futuro. Viviamo una cultura del declino? 

Trent’anni fa, Giovanni Paolo II, eletto papa, disse con forza profetica: “Non abbiate paura”. Ripeté con convinzione nuova l’antico invito pasquale. Ritorna in tutta la Bibbia, perché la paura impasta tanta parte della storia. Rinunciare ad agire nel grande mondo e alzare muri non fa passare la paura. La paura è dentro di noi, figlia del vuoto. Non la fa svanire la droga nazionalista.

Non è individuando nemici all’orizzonte che si trova il coraggio di essere se stessi: scelta spesso facile, in cui si può alzare il cristianesimo come una bandiera contro eventuali nemici. Noi europei non siamo oggi quello che fummo. Non siamo quello che fummo, ma che cosa saremo?

Saremo quello che noi donne e uomini saremo capaci di vivere e di comunicare. L’Europa è incerta e spaventata: ma ricca di pace e benessere. E noi cristiani europei? Lampada ai nostri passi è la Parola del Signore: ascoltare la Parola ci indica una strada.

Gesù dice alle donne al sepolcro: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso” (Mt 28, 6). Chi cerca Gesù, il crocifisso si affranca dalla paura. Nel Novecento lo fecero i nuovi martiri: i tanti in Russia (una memoria che incute rispetto verso i cristiani russi), nell’Est (penso alla dolorosa Albania), in Spagna, sotto il nazismo, nella missione fuori dall’Europa.

La ricerca di Gesù il crocifisso ha donato ai martiri una forza umile a fronte di poteri forti: una forza debole. L’Europa, nel Novecento, mentre era presa a costruire ordini nuovi, ha conosciuto una stagione di martiri.

La ricerca di Gesù il crocifisso, può inquietare la cultura della paura, la dissipazione della pace, del benessere, della libertà. Affermava con sapienza Martin Buber: “Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta… il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso”.

L’uomo spirituale comincia da sé ma non rinuncia a sollevare il mondo. È la via della conversione. Comincia dal cuore il sollevare il mondo. Sollevare il mondo dal male, dalla miseria che vive ancora nella ricca Europa dove si è dimenticata la parola “giustizia”, da quella nel Sud del mondo, dalla violenza diffusa, dalla guerra…

Uomini e donne spirituali non rinunciano a sollevare il mondo. Non basta il provvidenzialismo economico ad indicarci il futuro. C’è bisogno di una vita traboccante di fede e di amore in questa Europa povera di visioni per il futuro.

L’apostolo Paolo testimonia la pietra angolare cristiana per l’Europa: “l’amore del Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro” (2 Cor 5, 14-15).

È il pensiero che inquieta noi e la cultura europea: quelli che vivono, non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto e resuscitato per noi! Questo è un orientamento alternativo rispetto a tante mentalità europee. I cristiani debbono liberarsi dalla paura e dall’avarizia insaziabile che è l’idolatria (qualunque siano le motivazioni) che ci fanno vivere per noi, impotenti, chiusi, presi da piccole liti di famiglia, dentro un presente ricco di benessere e pace, senza preoccuparsi di chi è fuori dall’Europa.

Sapremo mettere in crisi la cultura e la prassi di paesi, comunità, uomini che vivono per sé? Sapremo attrarre con la gioia di essere finalmente uomini e donne veri? Diceva il grande maestro ebraico Hillel: “Se ti trovi nella circostanza in cui non ci sono uomini, sforzati di essere uomo”. Sforzati di essere uomo, umano! Così si incrina il politically correct del vivere per sé, l’Europa fortezza, la miopia egoista di nazioni europee chiuse in se stesse. 

Nel 1968, nei dialoghi con il patriarca Athenagoras, Olivier Clément, uno dei grandi cristiani europei del nostro tempo, notava già un incipiente processo di globalizzazione: “Da una parte… l’avvento dell’uomo planetario, in una storia che diviene mondiale: dall’altra… ogni popolo si abbarbica alla sua originalità…”.

E il patriarca, padre dell’ecumenismo del Novecento, gli rispondeva: “Noi cristiani dobbiamo situarci nella giuntura di questi due moti, per tentare di armonizzarli… Chiese sorelle, popoli fratelli: tali dovrebbero essere il nostro esempio e il nostro messaggio”. Non vivere per se stessi è trovare il punto di equilibrio pacifico tra l’unificazione globalizzante e il particolarismo crescente.

Gli Stati europei che non possono vivere solo di un futuro nazionale: c’è un processo di unificazione da far procedere. Si teme di perdere qualcosa oggi; ma domani gli Stati europei si perderanno se resteranno soli. Eppure l’unificazione europea non è una burocrazia o una costruzione senz’anima, senza passione. 

Cristiani più fratelli (è l’ecumenismo) debbono essere anima e passione per popoli europei più uniti. Ci sono tanti scettici dell’ecumenismo. Ci sono varie ragioni. Ma l’unità dei cristiani è un comandamento del Signore. Chi rinuncerebbe al comandamento dell’amore, perché ancora oggi gli uomini si odiano?

Non dobbiamo rinunciare al comandamento dell’unità. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ecumenismo è scambio di doni. Come cristiano occidentale posso dire quanto abbiamo ricevuto dalla diffusione dell’icona in Occidente, quanto possiamo ricevere dalla liturgia e dalla spiritualità dell’Oriente. C’è un legame profondo, misterioso, della pace e dell’unità dei cristiani con la pace del mondo e la sua unità. 

Girando per il mondo, percepisco una domanda verso l’Europa. Non è una vocazione? La guerra europea, per due volte nel Novecento, è divenuta mondiale. La pace europea deve essere contagiosa nel mondo! Oggi, nella mentalità corrente, la guerra viene riabilitata come strumento per risolvere i problemi. Pochi – guardate al terrorismo – possono fare la guerra e far soffrire tanti. Ma la guerra e la violenza sono espressione del male!

I cristiani europei hanno una responsabilità di pace nel mondo. È una missione. Si possono vincere i demoni della guerra. I cristiani hanno una forza di pace. Lo dico a partire dall’esperienza della Comunità di Sant’Egidio in Africa (per esempio alla realizzazione della pace in Mozambico dopo una guerra che ha fatto un milione di morti).

Oggi tutti possono lavorare per la pace, non solo i grandi Stati. L’Europa, all’origine di due guerre mondiali, non deve essere all’origine della pace nel mondo? A noi cristiani chiedere questo ai nostri governi. Ma a noi cristiani scoprire il nostro potere di liberare i popoli dal male della guerra. È una terribile malattia che può essere guarita.

Un’Europa che non vive per se stessa non può dimenticare l’Africa. Ma il suo futuro è congiunto all’Europa. Oggi l’Africa è terra di dolori, di malattie e di violenza, ma è anche terra di nuovi espansionismi come quello cinese con la sua proposta di capitalismo e di autoritarismo.

Grandi europei hanno indicato che Europa e Africa hanno un destino comune: penso ad Albert Schweitzer, teologo, esegeta, che passò gran parte della vita con i malati africani. Oggi ci inquietano i trenta milioni di sieropositivi di HIV/AIDS in Africa, i quali in larga parte non possono essere curati per l’alto prezzo dei farmaci, mentre ormai l’AIDS si cura in tutta Europa.

Questo è un vergognoso distacco dell’Europa, che banchetta lautamente mentre Lazzaro muore alle sue porte. Muore di malattia. Muore di fame e di mancanza di acqua. Un miliardo di persone nel nostro mondo non hanno accesso ad acque pulite e ciò comporta la morte di 1.800.000 bambini di malattie intestinali ogni anno.

La giustizia non può essere assente dalla nostra profezia. È una parola di cui si è perso, dopo tanti usi politici, l’eco profondamente biblico. Ma Gesù la ripropone nelle beatitudini, con uno sguardo d’amore verso chi ne è assetato.

La giustizia deve inquietare le politiche economiche dei nostri paesi, dove ci sono troppi poveri; deve inquietare le relazioni economiche tra noi e con il mondo, con l’Africa. Sì, l’Africa va pensata insieme all’Europa, perché essa è un banco di prova della moralità della politica internazionale.

Un grande papa, Paolo VI quarant’anni fa scriveva: “È un umanesimo planetario che occorre promuovere”. E notava: “Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli”. L’Europa – è il nostro impulso da credenti – può ritrovare il suo posto nel mondo lavorando per un umanesimo planetario. Per questo dobbiamo essere audaci, ma anche credenti e fratelli. 

Il cristianesimo occidentale ha una storia di amore per il Sud del mondo. Quello orientale – penso a quello russo fino nel cuore dell’Asia – ha una storia verso l’Est e il Medio Oriente. Le comunità cristiane, secondo la loro storia, possono audacemente impegnarsi per far rinascere la fraternità tra i popoli. L’Europa non può oggi essere un agente di fraternità tra i popoli? I cristiani europei non hanno la responsabilità di un ministero di pace nel mondo?

Dalla vita di donne e uomini spirituali in Europa possono sgorgare: un umanesimo planetario, iniziative di pace e di solidarietà, una visione del mondo come casa comune dei popoli e degli uomini. Del resto i cambiamenti climatici (ormai percepiti da tutti nei loro effetti) mostrano come la terra sia una casa comune. Ciò conferma anche il dramma del prelievo annuale di risorse naturali che supera del 25%, a tutt’oggi, la capacità di rigenerazione della terra. Sempre più il destino dei popoli è legato tra loro come in una casa comune: è anche la visione dei padri della Chiesa.

Fin dal 1989 il patriarcato ecumenico ha voluto che il primo settembre, divenisse anche la festa della creazione, in cui i cristiani si fanno voce della creazione che soffre i dolori del parto. Quel primo settembre è anche il giorno di inizio della seconda guerra nel 1939, quando la Polonia fu invasa dalle armate naziste e l’Europa scese nel baratro. Portiamo i dolori della creazione, la guerra, madre di tanti dolori e di tanta povertà, nella preghiera e nella liturgia.

Da una Chiesa che ascolta la Parola di Dio, che prega, che ricostruisce l’unità spezzata, nasce un amore responsabile che diventa missione, che diventa non vivere più per se stessi. Nasce un umanesimo che si può fare planetario. L’Europa di oggi non è quella che fu. Può avere una missione nel mondo.

Si può sollevare il mondo (cioè i popoli e gli uomini) dalla schiavitù della guerra e della povertà, dalla prigionia del vivere per sé, se apriamo il cuore al Vangelo, se ci uniamo alla preghiera della Chiesa, se guardiamo con amore i nostri fratelli.

Insegnava sapientemente san Serafino di Sarov: “Acquista la pace in te stesso e migliaia attorno a te troveranno la salvezza”. Sì, se gli europei, se i cristiani europei, non vivranno per se stessi, se acquisteranno la pace di Cristo, milioni attorno a loro, in Europa e fuori, troveranno pace e salvezza!

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