La lezione di Dumbo

Il remake burtoniano dell'originale Disney del 1941. Un film più adatto ai grandi che ai piccini.

Se ne erano accorti subito, i bambini, che Dumbo sapeva volare. E l’avevano pure detto ai grandi. Che però erano troppo schiacciati dall’angosciata razionalità della vita adulta, per stupirsi sul serio, per meravigliarsi davvero, per credere allo straordinario. Neppure il padre dei due bimbi, quel Colin Farrell nei panni del circense Holt, tornato dalla grande guerra senza un braccio, aveva creduto ai suoi due figlioletti. Lui, che pure era stato messo all’angolo dal piccolo mondo del suo circo proprio a causa della vistosa menomazione, e che col cucciolo di elefante dalle orecchie enormi condivideva ora le fatiche della diversità, vivendo sulla sua pelle l’indifferenza, se non addirittura l’avversione del mondo per chi non è perfettamente omologato.

Quel babbo non poteva più occuparsi di cavalli, come aveva sempre fatto, almeno così diceva il proprietario del tendone, interpretato da Danny De Vito; così come quell’elefantino dalle orecchie “sbagliate” non avrebbe potuto risollevare le sorti del suo malandato circo. Invece i piccolini l’avevano amato da subito, Dumbo, da prima di vederlo volare. Poi avevano intuito la ricchezza che può esserci, più o meno nascosta, nella diversità, e avevano gioito perché le doti speciali del piccolo gigante irregolare potevano far bene soprattutto a lui, aiutarlo a risolvere quei guai che gli umani, per salvare economicamente il salvabile, dopo le impreviste anomalie delle grandi orecchie, gli avevano procurato vendendo la mamma, responsabile, secondo loro, del fallito investimento, per cui meglio sbarazzarsene prima di incappare in altri guai.

I piccoli Milly e Joe, orfani di madre pure loro, toccano il tema centrale, espresso sotto metafora, del Dumbo di Tim Burton, in sala dal 28 marzo scorso: la diversità come rifiuto, nella cultura dello scarto in cui viviamo, ma che può diventare accoglienza, incontro, vicinanza, dono reciproco. Fragilità come elemento che avvicina, che riempie le vite, se recuperiamo quello sguardo innocente, puro, libero, come è quello dei bambini, appunto. Una diversità nascosta dai grandi (intesi come società) sotto un cappellino da infante e poi cavalcata quando le aperture e i battere di orecchie, o le planate dell’incredibile Dumbo sono ormai sotto gli occhi di tutti. E il pubblico grida, acclama eccitato, si compiace per essere davanti a quel fenomeno spettacolare e unico. Pura merce.

Diversità prima calpestata e maltrattata, salvo poi scoprire che chi la porta addosso è una star e allora tutti ai suoi piedi, per quel trionfo di volgarità e violenza sottile, di utilitarismo strisciante che entra facilmente nei rapporti umani. E gli occhioni azzurri di Dumbo, inquadrati spesso in primo piano, che a volte riflettono letteralmente, visivamente, la realtà che gli sta intorno, stanno là a ribadire il tutto, a sorbirsi tristemente, quasi increduli, questo circo umano di esseri impazziti. Accade però, ci dice Tim Burton col suo film piuttosto dark – che è per i grandi, forse, più di quanto lo sia per i piccini – che anche gli adulti possano cambiare rotta, e scrivere anche in là col tempo il loro romanzo di formazione.

Lo fa il capo del circo: il signor Max Medici del piccolo De Vito, che a un certo punto mette al primo posto il valore delle relazioni, vedi il ricongiungimento di Dumbo con la mamma, e costruisce un circo animalista che difende i più fragili (metaforicamente gli animali) licenziandoli e lasciandoli liberi di vivere la loro identità, rendendo il suo spettacolo circense magnifico, e addirittura politico, utilizzando solo le buone idee degli uomini e le loro capacità, trovando il modo di reintegrare i meno fortunati (vedi babbo Holt senza il suo braccio) e allestendo un piccolo trionfo di umana intelligenza.

Gli ha fatto bene diventare fragile come Dumbo, al signor Max: passare da piccolo predatore a preda lui stesso di grandi imprenditori senza scrupoli, come il Vandever di Michael Keaton, un concentrato di vanità pura, uno che “si circonda di gemme solo perché possano riflettere la luce su di lui”, dice la bella trapezista di Eva Green, uno che ha creato un parco dei divertimenti che diventa un vero inferno, e che alla fine, mentre gli umani rinsaviti fanno squadra, e insieme giocano per liberare madre e figlio elefante, va a fuoco mostrando tutta la sua menzogna e fasullità. C’è tutto questo, insomma dentro il remake burtoniano dell’originale Disney del 1941. Ci sono tanti colori forti, pastosi, sgargianti e insieme cupi, e c’è uno sviluppo narrativo intelligente, con diversi momenti splendidi e qualche ristagno, ma il rifacimento, insieme libero e rispettoso dell’originale, nel complesso è buono. Ci sono i diversi bellissimi tanto cari al grande regista americano, e ci siamo noi, la cosiddetta società, trasferita negli anni venti della pellicola e perciò già brutta, si, ma forse, se il film fosse stato ambientato ai giorni nostri, lo sarebbe stata ancora di più. Purtroppo.

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