La lezione di Pino

Maddaloni, nuovo allenatore della Nazionale di judo dei non vedenti, ci parla dell’insegnamento che può dare la sua esperienza.
Pino Maddaloni

«Nella vita a volte succedono delle cose inaspettate, Dio ti dà la possibilità di raggiungere dei risultati, di far parlare di te. Poi, nel momento che ti metti a disposizione dei più giovani o di persone meno fortunate di te, capisci che tutto questo è avvenuto perché tu in cambio potessi dare qualcosa agli altri».

Pino Maddaloni in carriera ha vinto tanto: vari tornei internazionali, sei medaglie europee ed il titolo olimpico conquistato a Sidney, nel 2000, ovvero il successo che gli ha regalato una certa notorietà anche in un Paese come il nostro dove questo sport è considerato, a torto, “minore”. Ma Pino ci fa capire subito che quello straordinario risultato è solo una piccola parte del bagaglio sportivo e umano che ha ereditato da tanti anni di attività agonistica conclusasi nel 2008.

 

«Certo, vincere l’Olimpiade è stato un traguardo enorme, ma io non ho mai praticato judo per quello. L’ho praticato perché mi piaceva stare con i miei amici e con mio padre, che era anche il mio allenatore, perché giorno dopo giorno scoprivo quanto era bello diventare sempre più bravo. Così, quando oggi mi invitano a parlare ai giovani per raccontare la mia esperienza di judoka, spiego che la vittoria da copertina è la parte meno importante dello sport».

La famiglia Maddaloni lavora da anni per insegnare judo a tanti ragazzi che vivono in alcuni dei quartieri più disagiati della periferia di Napoli, sottraendoli spesso alla strada e a pericolose scelte di vita. «Se capita che arriva in palestra qualcuno che non può pagare, magari perché i genitori sono senza lavoro, allora non paga: non insegniamo certo a scopo di lucro. Ci sono tanti bambini, a volte anche sordomuti, non vedenti o con la sindrome di down, e tutto questo è bellissimo».

 

Una piccola oasi nel deserto che deve convivere con problemi finanziari da risolvere giorno dopo giorno per poter sopravvivere, sorretta in alcuni casi anche da una “provvidenza inaspettata”. «L’anno scorso, ad esempio, è successo che non ce la facevamo più a pagare l’energia elettrica e sembrava dovessimo chiudere. Poi fortunatamente c’è stata un’imprenditrice italo-americana che ha fatto una donazione e ci ha salvato».

Così, Pino può spiegare ancora a tanti bambini che davvero frequentando una palestra si può cambiare una vita. «Io sono la prova di chi poteva diventare un cattivo esempio per gli altri e che invece grazie allo sport è diventato una persona migliore», confida. Può guardarli ancora negli occhi e «raccontare, emozionandomi, della mia prima medaglia, quella che ho vinto a dieci anni in una piccola gara e da cui non volevo mai separarmi, un obiettivo a cui anche loro possono arrivare. Spesso invece di uno sportivo si enfatizzano solo le vittorie importanti, dando un messaggio sbagliato ai più giovani». Può dire ancora a tanti genitori «che il judo è un perfetto anello di congiunzione fra la scuola e il mondo che il bambino incontrerà da grande, insegnando senso del sacrificio, amicizia, rispetto del prossimo e delle regole».

 

Da qualche mese Maddaloni ricopre anche l’incarico di allenatore della Nazionale non vedenti, quella che lui definisce una nuova straordinaria opportunità. «Io penso che nulla succede per caso. Se Dio ha voluto così vuol dire che questo doveva essere il mio percorso. Ho accettato l’incarico che mi è stato proposto con entusiasmo ed oggi ne sono contentissimo. Certo, c’è molto da fare: recentemente abbiamo fatto una gara in Lituania e lì ho visto che il livello dei ragazzi non vedenti degli altri Paesi è molto alto. Ma per il futuro sono fiducioso».

Una nuova avventura, una nuova occasione per trasmettere i valori di quello sport che ama così tanto. Se poi i risultati verranno, ancora meglio, ma per Pino non è la cosa fondamentale. Perché, come dice un vecchio adagio «non è tanto importante dove si arriva quanto piuttosto il cammino che si compie per arrivarci».

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