La Kolkata della poesia

Kolkata è il nome con cui recentemente è stata ribattezzata la metropoli che tutti conoscevamo come Calcutta. Tredici milioni di abitanti si accalcano su un fazzoletto di terra, chiuso da una parte dal fiume Hooghly e dall’altra dalla prossimità del confine con il Bangladesh, un tempo parte di questa terra bengalese e poi, dal 1947, Pakistan orientale. Infine, dal 1971, stato sovrano indipendente. Fu proprio da lì che si riversarono sulla capitale del Bengala occidentale le ondate di profughi che hanno trasformato questa città un tempo bellissima, spiega Supriya Choudari. Elengantissima nel suo sari di semplice fattura che veste in modo regale, la professoressa è titolare della cattedra di lingua e letteratura inglese presso la Jadavpur University, uno dei tre atenei della città. In un inglese che risuona dell’accento di Cambridge, dove spesso trascorre mesi come visiting professor, addolcito dalla musicalità inconfondibile del bengali, l’idioma locale, mi spiega la storia di questo mondo che pare uscire da un film di Buñuel. Si stenta, infatti, a credere che sia vero quanto si vede e si respira. Kolkata era il nome di uno dei tre piccoli villaggi che furono venduti da una famiglia di proprietari terrieri locali, alla Compagnia delle Indie orientali. Erano stati proprio i Chaudari (titolo che significa piccolo proprietario del posto), antenati della famiglia del marito della professoressa Supriya a concludere l’affare. E di affare si era trattato: in pochi decenni Calcutta si sviluppò fino a diventare il porto della Compagnia delle Indie e, successivamente, la vice-capitale dell’impero: una gran città, seconda solo alla Londra di sua maestà. Qui lo stile coloniale vittoriano si è sbizzarrito in una miriade di costruzioni: alcune come il Victoria Memorial o il Museum o il Grand Hotel, oggi Oberoi Intercontinental, hanno resistito. Altre sono progressivamente crollate sotto l’inclemenza di un clima impietoso ed il gonfiarsi della città fino all’inverosimile. Calcutta infatti era il miraggio di chi nelle campagne moriva di fame, come i contadini del vicino stato del Bihar, o di chi doveva lasciare la sua terra per motivi di carattere politico o religioso, come appunto gli abitanti del Bangladesh. Nel giro di un ventennio si calcola che a Kolkata e dintorni siano piovuti qualcosa come 20 milioni di persone, spinte sulle strade, lungo il fiume, nelle stazioni, fra le rovine di palazzi un tempo sontuosi dalla divisione fra India e Pakistan, dalla grande fame del Bihar negli anni Cinquanta ed infine nel 1971, proprio dalla guerra del Bangladesh. Esodi biblici, che hanno ridotto la metropoli a sinonimo di povertà, fame e miseria, e l’hanno coniugata al nome di una santa, Madre Teresa, che proprio assistendo a quegli esodi trovò la sua vocazione nella vocazione: servire i più poveri fra i poveri. La prof. Supriya ci aiuta a scoprire quanto si nasconde dietro a questa facciata: un mondo inatteso ed imprevedibile, che pure ha fatto la storia del sub-continente indiano. È stato proprio qui nel Bengala, infatti, che nel XIX secolo si è sviluppato il grande rinnovamento dell’induismo. Qualcuno azzarda un parallelo con l’umanesimo europeo del XV secolo. La presenza di europei con una cultura e religione ormai ben caratterizzate dal razionalismo e dalla separazione tra stato e chiesa e tra fede e ragione, aveva provocato crisi di identità in molti figli di questa parte del subcontinente indiano. Qui la gente è particolarmente portata alla speculazione ed al raziocinio, al sapere e all’esercizio delle arti. L’anima bengalese è forse la più raffinata nel mosaico che l’India offre. Fu proprio quest’anima che produsse uomini come Tagore, Aurobindo, Ramakrishnan, Vivekananda, per nominare solo quelli più famosi in occidente. Ma essi non furono altro che la punta di un iceberg che maturò un periodo irripetibile per il Bengala e per l’India intera, e che è stato consegnato alla storia come la rinascita dell’induismo. Al culto esasperato imposto da secoli dai brahimi si cominciò a proporre un interesse più attento verso Dio da raggiungere in un rapporto personale al di là del rito, passaggio obbligato e formale. Ma ben presto ci si accorse che non si poteva arrivare a Dio senza passare per l’uomo, e quindi nacque l’interesse acuto e profondo che il Bengalese ha per l’essere umano in quanto tale. La prof. Supriya ci spiega tutto questo mentre il film bunueliano si svolge di fronte ai nostri occhi. Siamo in una comoda auto ad aria condizionata, ma fuori il traffico ha dell’apocalittico, le strade sono disseminate di vere e proprie trincee, che costringono a rallentamenti improvvisi ad una velocità già da lumaca. Fiumane di persone camminano lungo le strade o assaltano autobus sulla via del ritorno a casa dagli uffici. Improvvisamente poi si apre la stazione della metropolitana: sembra di essere catapultati dall’altra parte dell’universo: pulizia, efficienza, modernità. Ma torniamo subito alla strada davanti a noi: si restringe fino a lasciar passare un solo veicolo. Ai lati barbieri sui marciapiedi completano il loro lavoro a pendolari sulla via del ritorno, baracchini assicurano un tè caldo versato in piccoli contenitori di terracotta che vengono poi gettati: se ne vedono cumuli dovunque… ma saranno riciclati per nuovi clienti. Questa è la parte della vecchia Kolkata – ci spiega Supriya – che gli inglesi avevano assegnato ai locali. Siamo sulla via che i pellegrini seguivano per andare al famoso tempio di Chitpur. Ci fermiamo e chiediamo informazioni al proprietario di uno dei celeberrimi risciò a mano, emblema anche nel terzo millennio di questo mondo incredibile. Poi arriviamo, ed entriamo… in un altro mondo. Sì, ecco la vera Kolkata. Quasi per magia la scena cambia e ci si trova catapultati in un ambiente che sembra non avere nulla a spartire con quanto abbiamo visto, sentito o respirato fino ad ora. Siamo nella casa natale di Rabindranath Tagore, il grande poeta bengalese, premio Nobel per la letteratura nel 1913, autore di una raccolta ricchissima di opere: poesia e teatro, racconti e dipinti. Un genio non solo della penna o del pennello, ma anche dello spirito: un uomo che fa toccare Dio in quanto scrive. Un grande riformatore dell’induismo. La casa, in tipico stile coloniale bengalese, è ancora ben tenuta, avrà più o meno 200 anni. Al centro un grande giardino, in un angolo un busto di Tagore, qualche bambino gioca sul prato ed alcune persone della sorveglianza sonnecchiano. Qui però l’atmosfera è sacra. Mi ricorda Anand Bhavan, la casa sulla sponda del Gange a Allahabad, dove nacque Jawaharlal Nehru. Si ha subito l’impressione di luoghi che hanno fatto la storia. Supriya confabula in bengalese con quattro ragazzi del luogo: sembrano strafelici di accoglierci. Ci invitano ad accomodarci su alcune sedie nel prato nel cuore del caseggiato. Si spengono tutte le luci ed inizia uno spettacolo incredibile. Con voci, musiche, giochi di luci si ricrea l’atmosfera della casa dei Tagore. Di colpo ci ritroviamo nel XIX secolo nel Bengala della riforma induista, della religiosità che vuole uscire dai culti esasperati e che vede la famiglia Tagore in prima linea, ostracizzata dalla Kolkata dei bramini per essere scesa a compromessi con un mondo impuro e contaminante. Ripercorriamo la vita di Rabindranath, la sua fanciullezza vicino al padre, grande riformatore sociale, con le sorelle ed i fratelli; la sua educazione scolastica sempre nel cuore di una casa dove si respiravano grandi ideali e poi le tragedie della morte del padre, della sorella, della moglie, le sue scelte di vita per una proposta di educazione che non fosse legata solo al sapere fine a se stesso, ma a una dimensione universale: la nascita del grande esperimento di Shantiniketan, il luogo della pace. Ed ancora i suoi versi che accompagnavano la lotta pacifica e disarmata di Gandhi verso l’indipendenza di un popolo. Improvvisamente, dopo aver ascoltato la sua voce leggere uno dei suoi poemetti più famosi, la musica cessa: si riaccendono le luci. Ci accorgiamo improvvisamente di essere ancora noi quattro, lì seduti su quel prato e si fa fatica a pensare che siamo a Kolkata, nel 2004 in una metropoli allucinante. Ci siamo sentiti trasporti in un mondo che ha altre dimensioni, dove lo spirito è sovrano e dove l’arte costruisce in te il rapporto con l’assoluto. Non si sono parole: il silenzio, che ci accompagna sulla macchina ad aria condizionata che taglia Kolkata con le sue strade a fosse ed il vagare di milioni di persone, impastate dalla polvere e dall’inquinamento, è l’immagine di quanto questo popolo sa fare. Ti porta in un altra dimensione senza che tu te ne renda conto, in qualsiasi momento ed in qualsiasi contesto. Lascio la prof. Supriya nella sua casa a Salt Lake, tipico quartiere della Kolkata della classe media, la borghesia che è ancora fiera delle sue radici bengalesi. Torno alla Guest House della Jadavpur University dove sono ospite e sulla strada passo dalla stazione ferroviaria. Compro un biglietto per Bholpur. Dopodomani andrò a Shantiniketan: questo Tagore lo voglio conoscere meglio.

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