La guerra tra contadini

Cancun, mercoledì 10 settembre, il sole delle 13 è a picco sulla cittadina balneare messicana che ospita il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Un piccolo uomo dai lineamenti asiatici si avvicina alla rete metallica posta a difesa della zona vietata. I manifestanti sono in tumulto, ma non si notano eccessive intemperanze. Anche il cartello che l’uomo porta sul petto pare uno dei tanti: “Wto uccide i contadini”. Il manifestante non sbraita, si lega invece alla rete con un gesto che ha un sapore simbolico. Poi estrae una lunga lama e fa harakiri. L’agonia è breve. Si apprende che Lee Kyung-Hae è un piccolo allevatore di bestiame della Corea del sud, laureato in agraria, già presidente dell’associazione contadini e pescatori e deputato. Conduceva da tempo una battaglia in favore dei tre milioni e mezzo di contadini sudcoreani danneggiati dalla politica neoliberista del suo paese. Con questo gesto il piccolo contadino suicida diventa un simbolo: “leader dei nuovi schiavi” lo definiscono, spiegando che non si è trattato di un atto sconsiderato, ma che il gesto è stato meditato e sofferto. Nato per risolvere i grandi problemi connessi con il commercio mondiale, il Wto si propone da qualche anno, grazie anche alle contestazioni dei no global, come ribalta delle più macroscopiche sperequazioni planetarie che la globalizzazione ha esasperato. Fame, miseria, sottosviluppo e tutto ciò che di male ne consegue, appannaggio per la quasi totalità dei paesi in via di sviluppo, si intrecciano qui in un nodo gordiano apparentemente inestricabile, con la politica commerciale dei paesi più sviluppati. Essi hanno portato al vertice la richiesta di una sempre maggiore liberalizzazione dei mercati, insieme a problemi ed esigenze legittime del proprio mondo agricolo che pure rappresenta, al loro interno, la fascia meno favorita; ma al tempo stesso questi paesi vogliono difendere i privilegi conquistati in un sistema economico del quale loro e solo loro hanno finora dettato le regole, chiedendo l’abbattimento dei dazi con cui i paesi poveri difendono la loro industria nascente. Questa volta però sono scesi in campo nuovi grandi protagonisti: sono i paesi emergenti – 23 a questo momento – e cioè l’intero blocco dei latinoamericani, guidati dal Brasile di Lula; Sudafrica ed Egitto, Turchia, Iran Pakistan e Thailandia, ma soprattutto India e Cina, i due colossi asiatici che sono entrati in scena con il loro enorme peso demografico e con un’economia in fortissimo sviluppo. Essi hanno chiesto in sostanza che cessi il protezionismo agricolo in Usa, Ue e Giappone, paesi che sussidiano annualmente con 300 miliardi di dollari le proprie agricolture, a fronte dei 50 miliardi che destinano in aiuti ai paesi poveri. Ma vanno considerate, anche nei paesi ricchi, le caratteristiche peculiari delle diverse economie agricole: estensiva e protesa alla quantità della produzione, quella americana, intensiva e frammentata quella europea che punta maggiormente alla salvaguardia della salute e alla qualità dei prodotti. C’è poi il problema della contraffazione dei marchi di produzione, per cui si vedono circolare, solo negli Stati Uniti, una bottiglia falsa di vino su due e nove formaggi su dieci. Per non parlare dei prodotti contraffatti dai cinesi. Va inoltre tenuto presente che l’Unione europea ha appena aggiustato con ulteriori sacrifici per i propri agricoltori il contenzioso in atto al suo interno, per consentire l’accesso dei nuovi paesi dell’Est. Certo, quelli del marchio di produzione appaiono problemi risibili di fronte a quelli legati alla sopravvivenza di milioni di persone totalmente dipendenti dall’agricoltura, e sono il 70 per cento dei poveri nel mondo. Allo scadere del tempo fissato per il Wto, le posizioni erano ancora così distanti che non si è ritenuto di salvare la conferenza procrastinandone di un giorno la chiusura, ma si è rinviato tutto al prossimo appuntamento. Si può dunque parlare di un fallimento del vertice. Non è poca cosa, però, che questi diversi e contrastanti problemi siano stati discussi allo stesso tavolo, evidenziando per tutti che, anche se non si è arrivati oggi a sciogliere il nodo del commercio mondiale e delle sperequazioni planetarie che ne conseguono, i problemi sul tappeto non sono più bilaterali e neppure multilaterali soltanto, ma globali veramente. E che in questa nuova ottica si può e ci si deve confrontare con coraggio per affrettare il tempo in cui più non si assisterà, come finora, a dialoghi fra sordi. E non ci sarà più bisogno del sacrificio di un piccolo allevatore coreano per richiamare l’attenzione di troppi indifferenti su quello che è certamente il primo problema planetario: produrre risorse per tutti e suddividerle equamente.

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