La grande forza dell’amore

Per stare in armonia con noi stessi e con le altre persone è necessario “farci uno”, comprendere il mondo dell’altro, vivere nella trasparenza e nell’accoglienza reciproca.
Foto Pexels

La vita di ognuno di noi è uno scrigno meraviglioso dove i colori si mescolano in una grande armonia. Ma tante volte lo scrigno si infrange e l’armonia dei colori è perduta, soprattutto perché si è persa quell’unità fondamentale tra Corpo, Mente e Spirito. Tre componenti essenziali che si esprimono visibilmente nei bisogni vitali comuni a tutti, nei sentimenti che proviamo quando i nostri bisogni sono soddisfatti o no, e infine nei relativi comportamenti determinati da ciò che sentiamo.

I bisogni vitali non soddisfatti suscitano in noi sentimenti di disagio, di amarezza, di frustrazione, di risentimento… e questi sentimenti possono determinare comportamenti di chiusura, di ostilità e aggressione, di rimprovero, di agire con odio. Diversamente, se i nostri bisogni di autonomia, di autenticità, di creatività, di fiducia, di protezione, di empatia sono soddisfatti proviamo sentimenti di affetto, di distensione, di entusiasmo, di libertà… e i nostri comportamenti verso gli altri saranno sempre più amorevoli.

Perché possa esserci sempre in noi e intoro a noi la grande forza dell’amore, è necessario «farci uno con l’altro» come dice Chiara Lubich nel suo libro “L’arte di amare”, “farci uno” ossia comprendere il mondo dell’altro, condividerne pensieri e sogni, vivere il più possibile nella trasparenza, in una reciproca accoglienza.

Se qualche volta la mancanza di fiducia e di stima da parte degli altri ci rende irrequieti o irascibili, confusi o indifferenti, con coraggio dobbiamo trovare la forza di comunicare agli altri la nostra necessità di sentirci stimati, di poter godere della fiducia degli altri e, con umiltà, chiedere l’aiuto dell’altro, per ritrovare quella intesa che sembrava essere scomparsa. Ugualmente, se siamo stati noi a suscitare nell’altro sentimenti di astio, di rabbia, di rancore, avere il coraggio di chiedere perdono e aiutare l’altro a comprendere anche la nostra fragilità.

Anche verso chi commette crimini e agisce con odio, dovremmo evitare di esprimere in maniera diretta giudizi moralistici, buono o cattivo, colpevole o innocente, capace o incapace, odioso o amabile, ma giudizi di valore partendo dal nostro vissuto e sapendo che sempre di fronte a situazioni di ingiustizia, prevaricazione, accaparramento, violenza possono scatenarsi in tutti noi sentimenti e giudizi reattivi.

Marshall B. Rosenberg nel suo libro “Le parole sono finestre oppure muri” racconta che di fronte a un palestinese che lo aveva chiamato assassino, solo perché era un americano, si pose in ascolto profondo di quell’uomo, nel quale aveva avvertito l’intima sofferenza, e gli pose varie domande per capire da quale profonda ingiustizia verso il suo popolo fosse stata determinata quell’aggressione verbale. L’uomo si sentì compreso e aprì il suo cuore ed evidenziò tutto quanto lo aveva portato a ritenere gli americani fautori di una politica ingiusta. Nacque un rapporto vero tra loro e quel giorno, che era la fine del Ramadan, Rosenberg si trovò invitato a cena da quell’uomo e rimasero amici.

Se un essere umano spinto dalla rabbia, dal rancore e dall’odio arriva a privare della vita un altro essere umano, abbiamo il dovere morale di capire da quali bisogni vitali insoddisfatti sono stati generati quei sentimenti violenti capaci di scompaginare l’intima armonia di quella persona e produrre effetti così devastanti e nocivi. È quello che si cerca di fare oggi in alcuni (troppo pochi) istituti di pena e di rieducazione, che hanno messo alla base del loro agire la riabilitazione umana e spirituale di quanti, accecati da sentimenti negativi, hanno commesso gravi delitti. Solo successivamente potrà avvenire la presa di coscienza dell’errore fatto e quindi la possibilità di sanare l’infermità psicologica di una persona, per poi gioire insieme quando chiederà perdono per il male commesso.

Viktor Frankl, iniziatore della logoterapia, nel suo libro “L’uomo che soffre” scrive che «anche dagli aspetti negativi, e forse soprattutto da essi, si può “estrarre” un senso e quindi trasformarlo in qualcosa di positivo: la sofferenza in servizio; la colpa in cambiamento; la morte in stimolo all’azione responsabile» e superare così la propria colpa.

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