La Georgia sarà una seconda Ucraina?

I recenti sommovimenti a Tbilisi sono sintomi di un malessere che colpisce la corona di Paesi attorno alla Russia. Anche la Moldova trema
Georgia
Un uomo sventola una bandiera nazionale georgiana di fronte a una barricata in fiamme non lontano dall'edificio del parlamento georgiano durante gli scontri con la polizia a Tbilisi, lo scorso 9 marzo 2023, in seguito alle proteste contro un disegno di legge volto a frenare l'influenza degli "agenti stranieri", ritenuto di stampo filo-russo e antidemocratico (AP Photo/Zurab Tsertsvadze) Associated Press/LaPresse

Col senno del poi, mi sembra di poter dire che quello a cui avevo assistito nel Caucaso, in Georgia, nel 2008, era un annuncio in scala minore, di quanto da un anno a questa parte sta accadendo in Ucraina. Il Donbass della Georgia era ed è ancora l’Ossezia del sud congiuntamente con l’Abcasia, due provincie georgiane abitate in prevalenza da russofoni alla frontiera con la confederazione russa, che avevano mal vissuto la caduta dell’Unione Sovietica e avevano perciò chiesto a Mosca di venire in loro soccorso. Per la popolazione di queste piccole regioni caucasiche non era accettabile che il governo georgiano chiedesse l’adesione all’Unione europea e alla Nato, e ancor più che in modi surrettizi tali entità lavorassero nella direzione di un avvicinamento progressivo all’Occidente, distaccandosi specularmente dall’influenza moscovita.

Con futili pretesti, nel giugno 2008 Putin aveva dichiarato guerra alla Georgia di Saakashvili, l’allora presidente risolutamente filoccidentale, sposato a una olandese e in affari con diverse società statunitensi. Il quale contava su un intervento della Nato al suo fianco, cosa che non avvenne, decretando perciò la sconfitta georgiana e il cessate il fuoco dopo appena una manciata di giorni di combattimenti, neppure troppo feroci, dopo la distruzione dell’intera flotta georgiana nel porto di Poti, sul Mar Nero, una dozzina di “barchette”, e dopo l’occupazione, che tuttora persiste, di Ossezia del sud e Abcasia. L’esercito georgiano non era addestrato come quello ucraino e non aveva goduto delle massicce forniture d’armi dell’Occidente, per cui la sorte della guerra poteva dirsi segnata già al suo scoccare.

Nei quindici anni successivi, al palazzo del governo di Tbilisi si sono alternati esecutivi filoccidentali e filorussi, come quello attuale dominato dal partito “Sogno georgiano” di Irakli Kobakhidze (che tuttavia ha posizioni più variegate, mirando anche all’integrazione nell’Unione europea), a testimonianza di un Paese con due sensibilità diametralmente opposte.

I fatti di questi giorni in Georgia sembrano confermare l’esistenza di un problema di identità in diversi Stati ex-sovietici, come la stessa Georgia, il Kazakistan, ovviamente l’Ucraina e la Bielorussia, ma anche la Moldova – lista non esaustiva, ovviamente −, tutti Paesi che in epoca sovietica avevano conosciuto fenomeni migratori interni al mondo del socialismo reale, legati alle decisioni economiche e politiche di Mosca che si basavano sull’antichissima regola del divide et impera. In Ucraina, la rivolta era sfociata nel 2014 nel ribaltamento del regime filosovietico di Yanukovic, con le conseguenze che conosciamo e le due guerre del Donbass, nel 2014 e nel 2022.

Qualche osservatore, rilevando le analogie tra caso georgiano e caso ucraino, sembra paventare anche a Tbilisi un finale simile, nel caso in cui l’attuale regime di “Sogno georgiano” venisse scalzato dal potere. Non siamo ancora arrivati a tanto, ma il cedimento dell’attuale governo sul progetto di legge definito pro Putin, che permette di qualificare come «agenti stranieri» ogni contestatore, una normativa osteggiata dalle opposizioni e dalla Ue, considerata un mezzo per limitare le attività dei media e delle Ong, sul modello di quella varata nel 2012 in Russia – Legge che ha l’opposizione, tra gli altri, del presidente della Repubblica, Salomé Zourabichvili, lascia trasparire possibili ulteriori rivolgimenti politici, tantopiù che la democrazia è giovane ed estremamente fragile.

Certo, l’Ucraina è ai confini con l’Unione europea, mentre la Georgia non lo è, e il movimento di popolo conosciuto nel 2014 a Kyiv non è paragonabile a quello più limitato che si è visto a Tbilisi. Ma l’effetto domino potrebbe riservare sorprese anche in Georgia, così come in un Paese fragile come la Moldova, che ha egualmente la sua Abcasia, la Transnistria, territorio formalmente moldavo ma praticamente indipendente, che nella sua costituzione prevede ancora l’ordinamento sovietico. Come Ossezia del sud e Abcasia, come Lugansk e Donetsk, la Transnistria è riconosciuta solo dalla Russia e da alcuni Paesi sudditi di Mosca. Tutti segni, comunque, dell’allergia russa a ogni movimento che metta in dubbio la sicurezza dei confini russi ufficiali, perché Mosca vuole garantirsi un “cuscinetto di sicurezza” alle sue frontiere.

Si sta giocando col fuoco, questa è l’unica certezza, anche a Tbilisi, anche a Chisinau.

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