La fraternità a fondamento della pace

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Quando si può dire che una guerra è finita? Un armistizio o un trattato di pace segnano anche formalmente una fase o la conclusione definitiva. Ci sono però una serie di conseguenze che si trascinano e che riguardano la popolazione interessata al conflitto o le popolazioni vicine. Nel caso della guerra in Iraq, siamo in una situazione che sembra aver provocato minori sofferenze di quelle prevedibili, ma non siamo in grado di delineare uno scenario chiaro né per l’Iraq, né per l’area medio-orientale. Il rapido evolversi degli eventi rischia inoltre di farci dimenticare come si è arrivati all’intervento in Iraq. Un gruppo di esperti dei movimenti Umanità Nuova e Giovani per un mondo unito, insieme ad altri del Movimento politico per l’unità, ha preparato un documento (Fraternità universale, fondamento della pace, disponibile integralmente sul sito www.cittanuova.it) che intende essere soprattutto un invito sereno alla riflessione, nella convinzione che quanto sta accadendo richieda non soltanto una lettura dei fatti, ma spinga a mettere in evidenza alcune conseguenze pesanti che il ricorso alle armi porta con sé. La perdita di vite umane, le distruzioni materiali, gli spostamenti forzati di popolazione e la disgregazione della convivenza sociale sono i segni più visibili. Ma altrettanto evidente, e con effetti a più lungo termine, è il grave turbamento del sistema internazionale nel suo insieme, il non adempimento degli impegni presi e la prospettiva di un post-conflitto legato ad un precario equilibrio retto dalle armi. Sono tutte situazioni – sottolinea il documento – che mettono a rischio il senso dei rapporti internazionali, le attese dei popoli, l’attività delle istituzioni internazionali e il significato stesso dell’azione diplomatica, ben oltre le vicende specifiche dell’Iraq. Nell’analisi della situazione si considerano le violazioni dei diritti umani perpetrati dai regimi dittatoriali e il fenomeno della violenza terroristica, con l’escalation dell’11 settembre, cogliendone una delle sue radici nelle diseguaglianze economiche fra i popoli. Riferendosi al conflitto iracheno, si mette in evidenza che anche questa volta alcuni stati – dimenticando gli obblighi giuridici ed etici assunti aderendo agli organismi internazionali – hanno fatto prevalere la tutela dei rispettivi interessi nazionali e preferito portare alle conseguenze più estreme la contrapposizione, assumendo reciprocamente la categoria di “nemico”. Non è una situazione nuova, ma si aggiunge ai tanti conflitti armati, internazionali ed interni, purtroppo in corso, che coinvolgono popoli, stati, gruppi organizzati. Dobbiamo perciò essere inesorabilmente pessimisti? L’ordinato svolgersi delle relazioni tra i popoli e il quotidiano rispetto delle regole da parte dei diversi membri della comunità internazionale fanno ritenere di no. L’esistenza di organizzazioni internazionali a vocazione universale, a cominciare dalle Nazioni unite, o le unioni di stati e i processi di integrazione economica e politica, indicano per altri versi la spinta del mondo verso una crescente unità. Ad essa concorre un’analoga tensione presente nella società civile, che si esprime in diversi modi a livello sociale, culturale e religioso. Il documento richiama l’Appello per l’unità dei popoli del 1988, basato sulla certezza che l’unità della famiglia umana scaturisce dal desiderio di unità dei suoi singoli membri e da una cultura di pace. Tale testo proponeva due princìpi fondamentali: costruire la fraternità universale e amare la patria altrui come la propria, che di fronte all’attuale quadro internazionale manifestano la loro concretezza e il loro forte significato strategico, poiché riescono a coinvolgere ciascuno personalmente ed a far scaturire comportamenti ed azioni secondo le differenti responsabilità. Proprio per essere concreti, il documento fa alcune proposte per rafforzare le regole della comunità internazionale e il ruolo delle Nazioni unite, a partire dai progetti di riforma già elaborati. Sono dei contributi per il presente, ma lo sguardo è al futuro, anche quello immediato, per sostenere iniziative politiche forti, di ampio respiro, non legate a interessi di parte, ma al perseguimento del bene comune universale. l senso dell’ordine internazionale Stralci dal documento “Fraternità universale, fondamento della pace”. Vanno richiamate alcune regole fondative della convivenza mondiale. Siamo convinti che nonostante la loro palese violazione che si riscontra nel comportamento di alcuni paesi, esse rimangono esistenti ed operanti perché parte della coscienza dei popoli (ethos globale) che è tradotta nelle norme che reggono l’ordine tra le nazioni (diritto internazionale) ed espressa dalla quotidiana condotta della maggior parte degli stati (politica internazionale). a) La soluzione delle controversie internazionali non può essere perseguita attraverso il ricorso alla guerra ed alla violenza. I conflitti di interesse che realisticamente possono sorgere nell’ordinario svolgersi delle relazioni internazionali vanno risolti con mezzi pacifici, non con la forza, la frode o l’inganno, né con il ricorso ad atti di terrorismo, ma attraverso il negoziato e l’equa composizione. b) L’ordine internazionale che regola la vita tra le nazioni costituisce l’unica possibile prevenzione alle azioni che offendono la giustizia. Pertanto le teorizzazioni di guerre o attacchi “preventivi” non trovano fondamento nella volontà comune degli stati, che attraverso la Carta delle Nazioni unite ed atti ad essa collegati, hanno previsto un sistema di prevenzione per porre fine ad azioni che possono compromettere la pace e la sicurezza internazionale, riservando strettamente l’uso della forza a decisioni collettive o limitandola ai casi di legittima difesa. Legati all’esperienza e alla riflessione politica di Igino Giordani, sosteniamo anche noi: “Se vuoi la pace prepara la pace”. c) La costruzione della pace e l’eliminazione del terrorismo nelle sue diverse forme sono strettamente legate al superamento delle diseguaglianze economiche tra i popoli. d) Far prevalere il bene collettivo della comunità internazionale agli interessi del singolo paese. L’intero spettro delle relazioni può essere riconsiderato alla luce della interdipendenza e della mutua appartenenza, come testimonia l’esistenza di obblighi generali (erga omnes) che tutti i membri della comunità internazionale sono chiamati a rispettare. Per questo il criterio dell’indipendenza che consente ad ogni stato di operare sul piano internazionale dovrebbe essere integrato ed aggiornato dal riconoscimento del valore positivo dell’interdipendenza. e) Superare la categoria di “nemico” come permanente criterio di analisi o di azione della politica internazionale. Per interrompere la spirale ascendente della violenza, è necessaria un’azione pro-attiva, attuata immettendo nel circuito delle relazioni internazionali categorie rinnovate, come la fraternità universale, la comune appartenenza, l’obiettivo del mondo unito, ed agendo di conseguenza. f) L’affermazione della superiorità di una cultura rispetto a qualunque altra non è sostenibile. Il dialogo tra le civiltà, come pure il loro costruttivo confronto costituisce un principio non derogabile dell’azione politica internazionale, sulla base del principio di eguaglianza delle comunità politiche e delle relazioni di fraternità da instaurarsi tra esse. afforzare l’Onu I fatti più recenti, manifestano l’urgenza di promuovere il rafforzamento dell’Onu ed il rilancio dello spirito della Carta delle Nazioni unite, fondata sulla cooperazione anziché sulla competizione tra gli stati, e attivamente alimentata da volontà costruttiva, fiducia nell’altro, fedeltà agli impegni assunti, collaborazione fra partner uguali e reciprocamente responsabili. L’impegno delle Nazioni unite deve essere ispirato ad un’idea di pace che abbia come orizzonte la piena e profonda riconciliazione, quale migliore strategia di lungo termine per la prevenzione dei conflitti. Si impone però, in una prospettiva che vuole le regole come esigenza del vivere sociale, un ripensamento della struttura e delle procedure della comunità internazionale, ed in particolare dell’Organizzazione delle Nazioni unite, così come disegnate alla fine della seconda guerra mondiale. La legittimità delle decisioni delle Nazioni unite, come di tutte le istituzioni politiche, dipende dalle procedure utilizzate per il raggiungimento del consenso. Le comunità politiche pur differenti per sviluppo economico e potenza militare, rivendicano giustamente parità giuridica, anche per quanto riguarda il peso relativo nel processo decisionale. Nei criteri di formazione della volontà delle organizzazioni internazionali, ed in primo luogo delle Nazioni unite, deve essere contemplata un’equa e funzionale rappresentanza dei popoli (sul piano demografico), delle diverse aree regionali (sul piano geo-politico) e delle diverse civiltà (sul piano culturale-antropologico). L’idea che l’unità dei popoli è l’unica strada per garantire un futuro “sostenibile” alla famiglia umana, significa favorire nella comunità internazionale la presenza di funzioni accentrate sul piano mondiale, che esercitino effettiva autorità sui diversi ambiti comuni alla vita dei popoli e degli stati. La competenza di questi organi – come già avviene per i poteri pubblici all’interno dei singoli stati – deve essere configurata in base al principio di sussidiarietà, che valorizza il ruolo delle comunità nazionali e delle organizzazioni della società civile, e assicurata dal principio della preminenza del diritto (rule of law/stato di diritto) quale garanzia di ogni regola e della comune convivenza. ESTO COMPLETO DEL DOCUMENTO Roma, 15 aprile 2003 Fraternità universale, fondamento della pace. Rafforzare le regole della comunità internazionale e il ruolo delle Nazioni Unite (Documento preparato da una commissione di esperti dei Movimenti Umanità Nuova, Giovani per un mondo unito e del Movimento politico per l’unità) . La situazione attuale e le sue prospettive La guerra che ha coinvolto le popolazioni delle regioni irachene, sulla quale si è concentrata un’attenzione senza precedenti da parte degli organi di informazione e dell’opinione pubblica, interpella profondamente la coscienza di tutti e di ciascuno di noi, richiamando il nostro conseguente impegno alla pace, al di là di ogni differente appartenenza. La situazione determinatasi ha radice profonda nella negazione dell’identità e della dignità dell’altro, sia esso Persona, Popolo o Stato, che si è manifestato nelle violazioni dei diritti umani, nella violenza terroristica e nelle violazioni dell’ordinamento internazionale. Va messo in evidenza che esistono regimi che non rispettano i diritti civili, politici e sociali, spesso impiegando le risorse dello Stato per potenziare l’apparato militare invece che garantire una qualità umana di vita ai propri cittadini. Negli ultimi anni si è aggiunto il fenomeno della violenza terroristica a livello internazionale che, attraverso gli attentati dell’11 settembre 2001, ha introdotto una nuova misura di violenza e di insicurezza. Fra le radici di tale fenomeno non va sottovalutata la permanente disuguaglianza sociale ed economica fra le diverse aree geografiche e all’interno di esse, come anche il perpetuarsi della situazione medio-orientale, in particolare il conflitto israeliano-palestinese. Partendo dall’indiscussa gravità di questi fenomeni, il presente documento intende soffermarsi sulle scelte con le quali, in quest’ultimo periodo, si è inteso reagire ad essi, producendo gravi violazioni dell’ordinamento internazionale. A quest’ultimo riguardo, particolarmente grave, nel confitto attuale, è la violazione sistematica dei principi basilari posti a regolare la convivenza dei singoli Popoli, degli Stati fra loro, delle diverse Organizzazioni internazionali e di ogni forma di intesa in cui si articola la vita della famiglia umana. Anche questa volta alcuni Stati, dimenticando gli obblighi giuridici ed etici assunti aderendo agli organismi internazionali, hanno fatto prevalere l’esclusiva ed incondizionata tutela dei rispettivi interessi nazionali e preferito portare alle conseguenze più estreme la contrapposizione, assumendo reciprocamente la categoria di “nemico”. Quanto accade richiede non soltanto una lettura dei fatti, ma ci spinge a mettere in evidenza alcune conseguenze pesanti che il ricorso alle armi porta con sé. La perdita di vite umane, le distruzioni materiali, gli spostamenti forzati di popolazione e la disgregazione della convivenza sociale sono i segni più visibili di un odio che la guerra alimenta ed accresce. Ma altrettanto evidente, e con effetti a più lungo termine, è il grave turbamento del sistema internazionale nel suo insieme, il non adempimento degli impegni presi e la prospettiva di un post-conflitto legata ad un precario equilibrio retto dalle armi. Sono tutte situazioni che mettono a rischio il senso stesso dei rapporti internazionali, le attese dei Popoli, l’attività delle Istituzioni internazionali e il significato stesso dell’azione diplomatica, ben oltre le vicende specifiche dell’Iraq. Di questo siamo consapevoli, come pure sappiamo che quanto sta accadendo in Iraq si aggiunge ai tanti conflitti armati, internazionali ed interni, purtroppo in corso, che coinvolgono Popoli, Stati, gruppi organizzati. Si tratta di situazioni di altrettanta gravità e dagli effetti devastanti per interi popoli e comunità etniche, religiose, linguistiche e culturali, come pure per la stabilità della convivenza degli Stati e dell’intera Comunità internazionale, anche se spesso dimenticati dai canali dell’informazione, volutamente rimossi dalle analisi politiche perché semplicemente classificati come “minori” oppure perché non funzionali agli interessi delle parti. Eppure, nonostante ad essi non sia rivolta la medesima attenzione oggi posta alle vicende irachene, questi conflitti costituiscono non solo una minaccia costante alla pace ed alla sicurezza globale, ma restano soprattutto strumenti di violazione dei diritti fondamentali, individuali e collettivi, della sovranità sui territori e sulle risorse, di controllo di aree geo-politiche ad alto interesse strategico. . I segni di un mondo unito Siamo però fermamente convinti che nonostante le divisioni e le difficoltà determinate dai conflitti in atto, certo acutizzate dalla guerra in Iraq, la spinta del mondo verso una crescente unità resta un dato costante alla cui realizzazione concorre l’ordinato svolgersi delle relazioni tra i Popoli e il quotidiano rispetto delle regole da parte dei diversi membri della Comunità internazionale. È poi la crescente interdipendenza e – almeno per una parte dell’umanità – lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, il progresso scientifico e tecnologico, che ci fanno ben dire che l’attuale è un momento di svolta epocale e di gestazione, pur sofferta, di una nuova visione del mondo e della realtà della famiglia umana. I fatti sono davanti a noi, dobbiamo saperli interpretare e così poter scoprire che la tensione del mondo verso l’unità non è stata mai così viva ed operante come ai nostri giorni. L’unità, se rimane una grande sfida, si rivela oggi come una grande opportunità. Di questa tendenza sono segni evidenti: •le Organizzazioni internazionali a vocazione universale, a cominciare dalle Nazioni Unite, il cui ruolo resta determinante per conoscere, affrontare e gestire con il concorso di tutti gli Stati le principali questioni che toccano la vita di Popoli e Paesi; •le Unioni di Stati e i processi di integrazione economica e politica che con maggiore intensità si vanno realizzando a livello continentale o per aree geo-politiche •la crescita di movimenti sociali, culturali e religiosi che si presentano come nuovi protagonisti delle relazioni internazionali e quindi delle scelte che impegnano verso obiettivi a dimensione mondiale •la crescente maturazione della coscienza di persone, soprattutto giovani, di partecipare alla costruzione di un mondo nel quale la giustizia sia sinonimo di pace, stabilità, sviluppo, cooperazione, rispetto dei diritti umani, intesa e fiducia reciproca. •lo sviluppo del dialogo fra persone di religioni e convinzioni (anche non religiose) diverse, guidato sia dalla regola aurea – “fai all’altro quello che vuoi sia fatto a te, non fare all’altro quello che non vorresti sia fatto a te” -, sia dalla universale fede nei valori umani, entrambe fondanti ogni esperienza di vita autentica e pertanto capaci anche di ispirare e governare (governance) le relazioni internazionali. Le vicende più recenti ci sottolineano che il limite delle relazioni internazionali riguarda sia l’assenza di responsabilità che le violazioni delle regole comuni, ma ancor più riguarda il loro fondamento. Se tecnicamente esso si è sempre più precisato attraverso principi e strutture, mostra tuttavia di aver bisogno di un’anima: l’amore, e cioè la forza più potente, feconda e sicura che può legare l’intera umanità, superando ogni possibile divisione e facendo convivere le differenti appartenenze di razza, cultura, religione, convinzione filosofica, visione politica. E’ solo l’amore, tradotto in solidarietà e comprensione reciproca, che sa trasformare difficoltà e conflitti in opportunità. L’unità dei Popoli In questi anni la nostra esperienza in campo internazionale è stata orientata dall'”Appello per l’Unità dei Popoli” che abbiamo elaborato nel 1988, come frutto di un particolare percorso di educazione alla mondialità, basato sulla certezza che l’unità della famiglia umana scaturisce dal desiderio di unità dei suoi singoli membri e da una cultura di pace. L’Appello, che riteniamo possa servire anche a leggere la situazione attuale, propone, fra gli altri, due principi fondamentali: costruire la fraternità universale e amare la patria altrui come la propria. Si tratta di principi che di fronte all’attuale quadro internazionale possono proporsi per la loro concretezza e il loro forte significato strategico, poiché riescono a coinvolgere ognuno di noi ed a far scaturire comportamenti ed azioni secondo le differenti responsabilità, ad iniziare da una permanente educazione alla pace. Infatti l’epoca contemporanea ha un suo punto di rinnovamento nella proclamazione di tre principi, presenti in buona parte delle rivoluzioni sviluppatesi nei vari continenti: libertà, eguaglianza, fraternità. I primi due sono attuati solo in parte e saranno sempre incompleti e in pericolo, finché non nascerà in ogni regione del mondo la viva coscienza anche del terzo principio: la fraternità universale che rende armoniosi i rapporti tra le persone, così può trasformare i rapporti tra le nazioni e stabilire relazioni amichevoli fra gli Stati. Da un altro lato ci accorgiamo dell’effettiva esigenza che i Popoli possano manifestare la loro capacità di indirizzo e di azione nelle relazioni internazionali in modo continuativo, superando così la visione che vuole solo gli Stati protagonisti della vita della Comunità mondiale. Questa esigenza è per altro sorretta dalla situazione attuale che vede sempre più i Popoli non solo come protagonisti della vita sociale, politica, economica all’interno degli Stati, ma anche diretti ispiratori dei processi di integrazione sovranazionale, destinatari dell’azione delle Organizzazioni internazionali, garanti del patrimonio comune e perciò del bene di ogni persona e dell’umanità intera. Ma per adempiere con sempre maggiore efficacia questi compiti ogni Popolo è chiamato ad uscire dall’isolamento, dal ritenere esclusivi i propri interessi e la propria identità, dal custodire gelosamente le proprie risorse fino al precludere la crescita e l’esistenza stessa degli altri Popoli. E’ questo il frutto dell’amare la patria altrui come la propria: un solo popolo abbellito dalle diversità di ciascuno e custode delle differenti identità (cfr. Chiara Lubich, Simposio presso la sede ONU, New York, 28.05.1997, in Nuova Umanità, 1998/1, n. 115, pp. 57-65). Il senso dell’ordine internazionale Sono proprio questi i motivi per cui, di fronte agli innumerevoli e complessi problemi esistenti nell’attuale momento della vita internazionale ed ai possibili scenari dell’immediato futuro, ci sembra importante richiamare alcune regole fondative della convivenza mondiale. Siamo convinti che nonostante la loro palese violazione che si riscontra nel comportamento di alcuni Paesi, esse rimangono esistenti ed operanti perché parte della coscienza dei Popoli (ethos globale) che è tradotta nelle norme che reggono l’ordine tra le nazioni (diritto internazionale) ed espressa dalla quotidiana condotta della maggior parte degli Stati (politica internazionale). a) La soluzione delle controversie internazionali non può essere perseguita attraverso il ricorso alla guerra ed alla violenza. Al principio del ripudio della guerra e della violenza come strumento di offesa agli altri popoli ed al divieto dell’uso della forza armata come mezzo di soluzione delle controversie internazionali debbono corrispondere, in buona fede, scelte politiche concrete, coerentemente con quanto previsto dal diritto internazionale e già stabilito da molte costituzioni. I conflitti di interesse che realisticamente possono sorgere nell’ordinario svolgersi delle relazioni internazionali vanno risolti con mezzi pacifici, non con la forza, la frode o l’inganno, né con il ricorso ad atti di terrorismo, ma attraverso il negoziato e l’equa composizione. Gli Stati sono chiamati ad utilizzare l’attività diplomatica e gli specifici strumenti -mediazione, conciliazione, arbitrato, soluzione giudiziaria – di cui dispone l’ordinamento internazionale “in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia, non siano messe in pericolo” (Carta delle Nazioni Unite, art. 2.3). b) L’ordine internazionale che regola la vita tra le nazioni costituisce l’unica possibile prevenzione alle azioni che offendono la giustizia I comportamenti posti in atto da Stati, da gruppi di Stati o da gruppi terroristici che palesemente violano la legalità internazionale vanno giudicati e sanzionati attraverso le norme e gli strumenti previsti dall’ordinamento internazionale. Come già avviene all’interno degli Stati, anche nella Comunità mondiale non è proponibile che si agisca illegalmente per rispondere ad azioni illegali. In questo modo, anche le controversie, affrontate con atteggiamento cooperativo, possono rappresentare un’opportunità ed una risorsa per favorire la ricerca di assetti più giusti e la rimozione di equilibri precari. Pertanto le teorizzazioni di guerre o attacchi “preventivi” non trovano fondamento nella volontà comune degli Stati, che attraverso la Carta delle Nazioni Unite ed atti ad essa collegati, hanno previsto un sistema di prevenzione per porre fine ad azioni che possono compromettere la pace e la sicurezza internazionale, riservando strettamente l’uso della forza a decisioni collettive o limitandola ai casi di legittima difesa. Le stesse teorizzazioni, comunque giustificate, non sono accettabili sul piano politico ed in particolare sulla base della convinzione che la migliore difesa sia costituita da una “buona offesa”, come evidenzia il pensiero di pensatori, politici, uomini di cultura, esponenti religiosi. Legati all’esperienza e alla riflessione politica di Igino Giordani, sosteniamo anche noi: “Se vuoi la pace prepara la pace”. c) La costruzione della pace e l’eliminazione del terrorismo nelle sue diverse forme sono strettamente legati al superamento delle diseguaglianze economiche tra i popoli. Questo significa ripensare le azioni per lo sviluppo in termini di cooperazione e non di assistenza, privilegiando il rapporto paritario tra donatori e beneficiari, riconoscendo l’apporto che anche questi ultimi possono dare in termini di crescita della convivenza pacifica tra le nazioni. Diventa così necessario mantenere gli impegni per lo sviluppo e per la destinazione delle risorse ai Paesi poveri, riducendo o cancellando il loro debito estero, eliminando le barriere doganali ai loro prodotti, abolendo le forme di sovvenzione o di aiuto alla produzione dei Paesi sviluppati, incentivando forme nuove di comunione dei beni e delle risorse (per un approfondimento .cfr. Documento di Genova elaborato in occasione del G8 dalla Ong New Humanity, espressione del Movimento dei Focolari, in Per una globalizzazione solidale, Ed. Città Nuova 2001). d) Il bene collettivo della Comunità internazionale non può essere subordinato agli interessi del singolo Paese L’intero spettro delle relazioni può essere riconsiderato alla luce della interdipendenza e della mutua appartenenza, come testimonia l’esistenza di obblighi generali (erga omnes) che tutti i membri della Comunità internazionale sono chiamati a rispettare. Per questo il criterio dell’indipendenza che consente ad ogni Stato di operare sul piano internazionale dovrebbe essere integrato ed aggiornato dal riconoscimento del valore positivo dell’interdipendenza. Questo atteggiamento ha come conseguenza immediata il principio che – come già avviene nei rapporti tra le singole persone – non è lecito ad uno Stato perseguire i propri interessi a danno di altri, o comunque non consentendo il pieno ed integrale sviluppo di un’altra comunità politica. L’interesse nazionale, specie se riferito agli Stati che detengono di fatto una posizione di preminenza, non può costituire la principale motivazione della loro politica estera quando questi decidono di diventare membri di Organizzazioni come le Nazioni Unite o di altre forme di integrazione. È quanto già avviene in relazione ad alcuni ambiti della politica internazionale, come quello della tutela dell’ambiente e dei suoi differenti ecosistemi, della creazione di spazi economici comuni e della regolamentazione di settori specifici (sanità, giustizia internazionale, ricerca scientifica, telecomunicazioni”). e) Superare la categoria di “nemico” come permanente criterio di analisi o di azione della politica internazionale In certe circostanze l’attribuzione della categoria di “nemico” costituisce un’inaccettabile semplificazione che impedisce di comprendere le radici della violenza altrui. Ciò non vuol dire disconoscere o sottovalutare le minacce alla pace ed alla sicurezza, quanto identificare strumenti e paradigmi radicalmente diversi per disinnescare tali pericoli. Per interrompere la spirale ascendente della violenza, è necessaria un’azione pro-attiva, attuata immettendo nel circuito delle relazioni internazionali categorie rinnovate, come la fraternità universale, la comune appartenenza, l’obiettivo del mondo unito, ed agendo di conseguenza. f) L’affermazione della superiorità di una cultura rispetto a qualunque altra non è sostenibile Un tale atteggiamento costituisce un atto di discriminazione contrario al principio della pari dignità di tutti i popoli ed ai diritti umani dei singoli e delle nazioni. Al contrario, il dialogo tra le civiltà, come pure il loro costruttivo confronto, costituisce un principio non derogabile dell’azione politica internazionale, sulla base del principio di eguaglianza delle comunità politiche e delle relazioni di fraternità da instaurarsi tra esse. A ciò si accompagna la stima e la valorizzazione delle specificità che ogni civiltà, come ad esempio quella araba, apporta al patrimonio comune dell’umanità, e il rispetto per l’autonomo percorso sociale, politico ed economico di ogni comunità. “Noi Popoli delle Nazioni Unite” chiamati a rafforzare l’ONU I fatti più recenti, manifestano l’urgenza di promuovere il rafforzamento dell’ONU ed il rilancio dello spirito della Carta delle Nazioni Unite, fondata sulla cooperazione anziché sulla competizione tra gli Stati, e attivamente alimentata da volontà costruttiva, fiducia nell’altro, fedeltà agli impegni assunti, collaborazione fra partner uguali e reciprocamente responsabili. L’impegno delle Nazioni Unite deve essere ispirato ad un’idea di pace che abbia come orizzonte la piena e profonda riconciliazione, quale migliore strategia di lungo termine per la prevenzione dei conflitti. La pace non è solamente uno stato di momentanea tranquillità, ma una rete strutturale e strutturata di relazioni vitali e vivificanti e di differenze ricche ed arricchenti. Essa é il risultato della trasformazione dei conflitti in rapporti nuovi, dinamici, creativi, ove trovano una sintesi originale due esigenze essenziali della vita di relazione tra i Popoli: il desiderio di integrazione e di unità a cui fa riscontro l’affermazione e la tutela delle differenti identità Si impone però, in una prospettiva che vuole le regole come esigenza del vivere sociale, un ripensamento della struttura e delle procedure della comunità internazionale, ed in particolare dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, così come disegnate alla fine della seconda guerra mondiale. Tale Organizzazione, che svolge un ruolo importante per la salvaguardia della pace, per la promozione delle sviluppo e per la tutela dei diritti umani, se non riformata nella sua struttura rimane un’istituzione che, dopo la fine della guerra fredda, perpetua di fatto gli equilibri scaturiti dalla seconda guerra mondiale. È perciò necessario che si riprendano i diversi progetti di riforma e se ne elaborino di più aderenti alla mutata realtà della Comunità internazionale, ma evitando di sottometterli ad interessi di parte o alla sola finalità di garantire spazi di potere perpetuando la divisione nei meccanismi decisionali. La legittimità delle decisioni delle Nazioni Unite, come di tutte le istituzioni politiche, dipende dalle procedure utilizzate per il raggiungimento del consenso. Le comunità politiche pur differenti per sviluppo economico e potenza militare, rivendicano giustamente parità giuridica, anche per quanto riguarda il peso relativo nel processo decisionale. Nei criteri di formazione della volontà delle Organizzazioni internazionali, ed in primo luogo delle Nazioni Unite, deve essere contemplata un’equa e funzionale rappresentanza dei Popoli (sul piano demografico), delle diverse aree regionali (sul piano geo-politico) e delle diverse civiltà (sul piano culturale-antropologico). Tali criteri sono essenziali per assicurare piena credibilità al sistema dell’organizzazione internazionale ed effettività alle decisioni cui deve corrispondere l’esecuzione da parte degli Stati. L’equa rappresentanza delle diverse componenti è uno strumento necessario ad evitare il rischio che i poteri sovrannazionali o mondiali divengano strumento di interessi particolaristici o sospettati di parzialità, a detrimento della loro autorità e attendibilità etico-politica. In generale, i criteri guida per la revisione delle strutture della comunità internazionale devono essere la rappresentatività, la legittimità, l’imparzialità, l’efficienza, l’efficacia nel perseguire il bene comune della famiglia umana e quello delle sue singole componenti. Alla luce di questi criteri, particolare attenzione va data alla riforma delle Istituzioni finanziarie internazionali perché si coordinino con le più ampie strategie multilaterali alla cui elaborazione concorre la società civile con le sue diverse forme di organizzazione. L’idea che l’unità dei Popoli è l’unica strada per garantire un futuro “sostenibile” alla famiglia umana, significa favorire nella Comunità internazionale la presenza di funzioni accentrate sul piano mondiale, che esercitino effettiva autorità sui diversi ambiti comuni alla vita dei Popoli e degli Stati. La competenza di questi organi – come gia avviene per i poteri pubblici all’interno dei singoli Stati – deve essere configurata in base al principio di sussidiarietà, che valorizza il ruolo delle comunità nazionali e delle organizzazioni della società civile, e assicurata dal principio della preminenza del diritto (rule of law/Stato di diritto) quale garanzia di ogni regola e della comune convivenza. Con questo documento, apriamo una fase di lavoro che ci impegna a proseguire la riflessione su questi temi oggi essenziali, in dialogo con le istituzioni di ogni livello e con le organizzazioni della società, per elaborare riforme progressivamente attuabili. Per questo, partiamo dalla nostra esperienza, che è in primo luogo di educazione alla pace nelle scuole, nelle famiglie, fra i giovani. Essa è arricchita dal contributo di milioni di persone presenti e impegnate in tutte le aree geografiche, dalla varietà delle espressioni culturali e religiose, nella prospettiva della fraternità universale.

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