La finanza

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Dall’inizio dell’era informatica e delle telecomunicazioni e con la liberalizzazione del movimento dei capitali, l’attività delle banche d’affari è diventata frenetica, anche perché alcuni premi Nobel hanno inventato algoritmi statistici in grado, a loro dire, di predire l’andamento dei prezzi e calcolare il rischio finanziario di operazioni proiettate nel futuro. Nascevano così i cosiddetti titoli derivati, il cui prezzo dipende dall’andamento del prezzo, ad esempio, di materie prime come il grano o il rame, l’oro o il petrolio, necessarie per produrre pasta, cavi elettrici, gioielli o benzina: chi produce questi beni spesso è disposto a pagare un premio pur di ottenere la materia prima a prezzi certi; chi vende questi titoli incassa un premio che produrrà un utile se i prezzi rimarranno al di sotto della variazione prevista dagli algoritmi statistici su cui è stato calcolato. Altrimenti andrà incontro a perdite, anche rilevanti. Questi titoli derivati possono quindi essere utili a chi produce, ma possono anche essere acquistati da chi vuole speculare sul valore delle materie prime, amplificando, come pochi mesi fa per il grano e il petrolio, aumenti di prezzo che si trasformano in tragedie per i poveri. Derivati simili permettono di scommettere sull’andamento di obbligazioni e azioni e su indici di borsa e possono creare ingenti perdite per tutto il sistema. Si sono inventati poi titoli per finanziare i mutui immobiliari di seconda scelta (subprime), concessi a chi non poteva dare garanzie oltre all’ipoteca sulla casa che voleva acquistare, e non poteva fornire prove di avere il reddito necessario a pagare le rate del mutuo; titoli andati a ruba, perché mentre gli algoritmi calcolavano un rischio basso, nell’assunto che il valore delle case sarebbe sempre cresciuto, la mancanza di garanzie giustificava un tasso maggiore. Analogamente si inventavano altri titoli, per finanziare le carte di credito al consumo e per assicurare contro l’insolvenza dei creditori, i Credit default swaps (Cds), inventati dieci anni fa e di cui ne sono stati emessi per un valore di 44 mila miliardi di dollari (!), pari al 78 per cento del prodotto lordo di tutto il mondo, una vera pazzia. E infine titoli costituiti da una miscela di tutto quanto sopra, le cosiddette obbligazioni salsiccia, ideate sull’assunto che un insieme di diversi rischi è meno rischioso di un rischio concentrato, perché non possono tutte le operazioni andar male insieme. Soprattutto dopo che la Security Exchange Commission americana nel 2004 aveva eliminato ogni limite al riguardo, i manager delle banche d’affari erano portati a garantire emissioni fino a 30 volte (effetto leva) il valore del capitale della banca: se su questi titoli essi realizzavano ad esempio il 2 per cento di utile, questo in proporzione al capitale investito dai soci diventava il 60 per cento: così i manager, producendo denaro dal denaro altrui, tramite un enorme castello di carte, ottenevano stipendi e premi altissimi caricando di rischi i risparmiatori e gli operatori dell’economia reale. Questa possibilità di emettere titoli, di indebitarsi in modo indipendente dal capitale proprio, in pratica ha lo stesso effetto dello stampare moneta; così, quando questi titoli vengono a perdere valore, è come se si ritirasse moneta dal mercato e le banche rimanessero senza liquidi da prestare alle aziende della economia reale per produrre beni e servizi. Cosa che sta effettivamente succedendo. Per gestire questa finanza innovativa occorrevano però funzionari a cui fossero familiari le complesse nuove logiche di calcolo del rischio, e i funzionari di banca formati prima dell’era del computer si limitavano a distribuire questi nuovi titoli al pubblico senza essere in grado di coglierne la rischiosità. Spesso arrivavano ad investirvi anche i propri risparmi, fidandosi del prestigio delle banche emittenti e della valutazione delle Agenzie di rating, quelle che danno le pagelle finanziarie, senza considerare che queste erano incaricate delle valutazioni dalle stesse emittenti, per cui era logico che sarebbe stata scelta l’agenzia più ottimista. I manager più anziani diffidavano di questa nuova finanza che non comprendevano appieno e per questo le banche italiane, in cui il ricambio generazionale è più lento, si sono trovate meno coinvolte delle banche svizzere, inglesi, francesi e tedesche nella crisi. A queste ultime, evidentemente, non è bastato che uno di questi giovani guru già nel ’95 con i suoi giochetti avesse fatto saltare – operando sul suo computer da un ufficio di Singapore – la Barings, prestigiosa banca d’affari che vantava come azionista la regina d’Inghilterra: ultimamente un altro giovane guru, forse solo per farsi notare, ha bruciato 5 miliardi di euro della francese Société Générale. Tutta questa finanza innovativa ha stravolto il tradizionale rapporto di fiducia tra il funzionario e l’utente, potendo assicurare il rischio di insolvenza ed essendo obbligati a delegare ai piani alti della banca la valutazione di quanto si offre al risparmiatore. Così oggi i funzionari, che in precedenza, a garanzia di entrambe le parti, non erogavano un prestito se non ne giudicavano sufficientemente certa la restituzione e non vendevano prodotti che non consideravano sicuri, adesso spesso sono diventati loro malgrado semplici passacarte.

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