La filiera dello sfruttamento

Lavoro servile in agricoltura. Una piaga da sanare a partire dai prezzi della grande distribuzione

Un’altra stagione di raccolta va in archivio, e anche quest’anno la politica perde un’occasione per avviare riforme strutturali nel settore agricolo. Eppure quella appena trascorsa è un’estate macchiata di sangue e di piazze, di denunce e di speranze: due tragici incidenti stradali nel foggiano, il 4 e il 6 agosto, hanno causato la morte di 16 lavoratori immigrati e infiammato il dibattito sul caporalato e lo sfruttamento della manodopera in agricoltura.

Migliaia di persone sono scese in piazza a Foggia per chiedere al governo un atto concreto contro le condizioni insostenibili del lavoro nel settore primario. La risposta è stata flebile: il ministro dell’Agricoltura, Gian Marco Centinaio, ha criticato la legge sul caporalato, annunciando di volerla rivoluzionare. Ma il timore delle organizzazioni della società civile è che l’esecutivo, almeno nella sua componente leghista, stia pensando di indebolirne la parte più progressiva, che estende per la prima volta la responsabilità del reato all’azienda agricola che ricorre alla figura del caporale. Lo sfruttamento del lavoro non si consuma infatti nel rapporto tra bracciante e caposquadra, ma coinvolge per natura anche l’imprenditore che beneficia di questo sistema. La legge 199 del 2016 è uno spartiacque da questo punto di vista. Eppure si può fare di più.

Sono ancora centinaia di migliaia i braccianti irregolari in Italia, molti dei quali immigrati dall’Africa o dall’Est Europa. Si tratta spesso di uomini e donne in condizioni di vulnerabilità, scarso accesso ai servizi e poca o nessuna conoscenza dei propri diritti. Un esercito di marginali che si sposta per la penisola inseguendo la stagionalità dei prodotti, con turni massacranti e alloggi di fortuna lontani dai centri abitati.

Un simile contesto è aggravato dalla scarsa disponibilità dei servizi più elementari che dovrebbero favorire lo sviluppo di un mercato del lavoro dignitoso: mancano politiche abitative, trasporti pubblici tra città e campagna, sistemi di collocamento efficaci. In questo vuoto dello Stato si inseriscono meccanismi di intermediazione più o meno informale tra agricoltori e braccianti: se il pubblico non può o non vuole prendere in mano la situazione, ecco che si instaurano dinamiche alternative per mettere in connessione la domanda e l’offerta di lavoro. Ed è così che decine di persone stipate in piccoli furgoncini trovano la morte sulle strade della Capitanata. Risolvere questi problemi sui territori darebbe certo una spallata al caporalato. Accanto a queste misure è però necessario intervenire sulla remunerazione del settore agricolo. E qui subentra un ulteriore problema strutturale delle nostre filiere alimentari: lo squilibrio dei rapporti di potere tra parte agricola, parte industriale e Grande distribuzione organizzata (Gdo), a tutto vantaggio di quest’ultima.

Oggi i supermercati in Italia canalizzano oltre i due terzi degli acquisti alimentari: pochi grandi gruppi di distribuzione si trovano quindi in posizione di forza rispetto alle centinaia di migliaia di aziende agricole che coltivano i prodotti destinati ai loro scaffali. Emblematico è il caso di una nota catena del discount che abbiamo denunciato pubblicamente per aver acquistato un milione di bottiglie di passata di pomodoro ad appena 31,5 centesimi l’una.

Il tutto grazie ad un’asta al doppio ribasso tra i suoi fornitori, costretti a rischiare la vendita sottocosto pur di assicurarsi una commessa di tali proporzioni.

È inevitabile che sistemi come questo inneschino poi dinamiche a cascata lungo la filiera: l’industria di trasformazione, infatti, dovrà rivalersi sui coltivatori di pomodoro per recuperare margini di guadagno. E se un chilo di materia prima frutta appena 8-9 centesimi al produttore, è chiaro che a rimetterci sarà l’ultimo anello della filiera sporca: il bracciante, figura spogliata dei più elementari diritti e della dignità del lavoro, ultima tessera di un domino crudele che va fermato ad ogni costo.

L’Unione europea, seppur con anni di ritardo, sta cercando di approvare entro l’anno una direttiva sulle pratiche commerciali sleali nella filiera alimentare. L’intento, meritorio, è riequilibrare i rapporti fra la Gdo e gli altri player. Sarà necessario che l’Italia recepisca immediatamente la nuova normativa, aumentandone l’ambizione in alcune sue parti (come il divieto assoluto di acquistare i prodotti tramite aste al doppio ribasso), per mettere fine alla lunga lista di vessazioni che indeboliscono l’agricoltura e l’industria alimentare nel nostro Paese e negli altri Stati membri.

Oltre a ciò, è urgente lavorare ad un sistema di trasparenza e tracciabilità dei prodotti alimentari, per mettere il consumatore in condizione di verificare la provenienza e la sostenibilità di ciò che acquista. Finché il prezzo sarà l’unica indicazione disponibile, la condizione degli agricoltori e dei braccianti resterà nascosta dietro i manifesti del sottocosto o del tre per due.

* Direttore Terra onlus

 

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