La dignità del lavoro davanti alla crisi

La crisi pandemica, con la minaccia di una disoccupazione di massa, ha messo in evidenza disuguaglianze strutturali lungo la catena della produzione. Per trovare una soluzione partiamo da una analisi della realtà. A colloquio con Gianni Alioti, sindacalista, esperto delle dinamiche internazionali del lavoro
Lavoro Foto Mauro Scrobogna /LaPresse

Centralità del lavoro per la dignità della persona. La disponibilità, in tempi brevi, da parte della Commissione europea delle risorse per la cosiddetta cassa integrazione europea (SURE) pone in evidenza la serietà estrema della crisi occupazionale che attanaglia il nostro Paese. Siamo, infatti, in prima posizione nell’accesso al prestito a tassi agevolati (27,5 sul totale attuale di 81 miliardi di euro). Soldi che vanno restituiti e che servono ad evitare le conseguenze più estreme di mancanza di denaro per milioni di persone.

La sfida più grande consiste senz’altro nella capacità di trovare una via di uscita comune dalla crisi tramite una visione condivisa tra le parti sociali. Per poter arrivare a questo risultato è necessario cercare di capire le ragioni dello squilibrio di potere esistente ben prima dell’esplodere della pandemia. Gli studiosi che si rifanno ad una visione dell’economia civile parlano del prevalere dell’economia della rendita su quella della produzione e del lavoro.

Ne abbiamo parlato con Gianni Alioti a partire dalla sua conoscenza dell’organizzazione del lavoro come responsabile, per un molti anni, dell’Ufficio internazionale dei metalmeccanici della Cisl e ora impegnato in progetti di cooperazione, sempre a livello internazionale.

In che contesto ci troviamo nel mondo del lavoro?
Dal mio punto di vista sono almeno tre i fattori che hanno cambiato in negativo l’economia, nel suo significato etimologico: “Organizzazione dell’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite) al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali e collettivi”. Tre fattori che, per estrarre sempre più valore dal capitale investito, portano alle estreme conseguenze ciò che papa Francesco chiama “la logica della violenza e dello scarto”.

Partiamo dal primo fattore della crisi con il quale dobbiamo fare i conti…
Partirei senz’altro dal dominio del capitalismo finanziario. Cosa è avvenuto in concreto? Nel passaggio dall’egemonia industriale a quella finanziaria, il potere economico ha subito una profonda trasformazione. Ha perso il vincolo con le comunità locali e ha guadagnato in potenziale transnazionale. Il capitale è stato il primo fattore dell’economia a poter circolare liberamente oltre i confini degli Stati, seguito dalle merci, mezzi di produzione, nuove tecnologie, dati, brevetti ecc. L’unico fattore del sistema economico che non può circolare liberamente sono le persone che lavorano. Anzi per loro si costruiscono nuovi muri.

C’è un filosofo e scrittore spagnolo, Josep Ramoneda che ha saputo descrivere questa trasformazione del potere economico in modo efficace: «Il capitale finanziario ha raggiunto il dono divino dell’ubiquità, che gli permette di stare dappertutto e in nessun luogo, secondo quello che più gli conviene».

 E il potere politico come ha reagito?
Finora la politica è rimasta o impotente o complice rispetto al potere e agli interessi del capitale finanziario. Basta pensare a quanto ha scritto recentemente il professor Stefano Zamagni a proposito della responsabilità politiche e istituzionali nella difesa dei paradisi fiscali e nella scelta di non tassare le rendite finanziarie, almeno quanto non siano tassati i redditi da lavoro.

Ad esempio, la società Alphabet che controlla Google ha un valore di mercato di oltre 500 miliardi di dollari. Google, come Amazon e gli altri giganti del web, sfruttando i punti deboli delle legislazioni internazionali e nazionali riescono a trasferire gran parte dei ricavi ottenuti in Europa e nei vari Paesi al mondo nei paradisi fiscali e di fatto ad eludere il pagamento delle tasse.

Di solito, infatti, parliamo genericamente di “imprese” mentre conta molto la loro dimensione che condiziona gli altri poteri. Cosa comporta questo dato di fatto?
Quello che io chiamo lo “strapotere” delle Corporate nel processo di globalizzazione della produzione e consumo.

D’altra parte il peso che le grandi imprese multinazionali hanno assunto, con il controllo delle reti globali di sub-fornitura, approvvigionamento e vendita, è sotto gli occhi di tutti. Si è creata un’economia dell’interdipendenza su scala globale che prescinde o condiziona la volontà e le politiche dei singoli Stati. Pensiamo alle ricadute negative che la “guerra dei dazi”, scatenata dal presidente americano Trump contro la Cina, ha avuto su due colossi americani come la Walmart e la GM.

La prima è la più grande azienda al mondo nel settore della distribuzione commerciale, la seconda uno dei principali gruppi industriali nel settore auto.

Cosa è accaduto in questi casi concreti?
Walmart per anni ha imposto il suo paradigma, riempiendo gli scaffali dei suoi centri commerciali solo di merci prodotte in Cina (la fabbrica del mondo) da vendere a minor costo negli Stati Uniti e in altri Paesi trasformati in soli grandi mercati di consumatori.

GM, pur continuando a mantenere la testa e il cuore della produzione di auto negli Stati Uniti, dipende per l’approvvigionamento della componentistica per il 70% dalla Cina.

Non è un caso che a ogni timido tentativo di migliorare i salari minimi e i diritti dei lavoratori in Cina, troviamo tra i principali oppositori i lobbisti della United States Chamber of Commerce la più grande federazione di commercio al mondo. Alla faccia della retorica della politica americana per il non rispetto dei diritti umani in Cina e nel resto del mondo.

Ma tale conoscenza del potere delle grandi società transnazionali non è noto da tempo?
In effetti sin dagli anni ’60 del secolo scorso l’economista americano John Kenneth Galbraith aveva intuito che le imprese multinazionali avrebbero esercitato uno strapotere e che bisognava controbilanciare il peso e il dominio di queste grandi Corporate. La democrazia non avrebbe potuto vivere senza i necessari contrappesi tra i poteri.

Nonostante sia passato oltre mezzo secolo dalle intuizioni di Galbraith siamo ancora distanti dall’aver creato quei contrappesi… Pensiamo all’asimmetria di poteri che in questi ultimi 40 anni è cresciuta tra sindacati e lavoratori da un lato, capitale e management delle imprese multinazionali dall’altro. Gli uni agiscono tuttora in gran parte su scala nazionale e locale, gli altri si muovono liberamente in una dimensione globale.

Possiamo fare l’esempio di un settore?
Pensiamo a come si è riorganizzata la catena del valore nel settore tessile-abbigliamento. Una t-shirt di marca venduta in Italia a 29,00 euro è prodotta in Bangladesh a 5,00 euro (di cui 3,40 costo materiale e energia + 0,27 costi generali + 1,15 profitti della fabbrica + soli 18 centesimi di costo del lavoro). Circa il 60% del valore (17,00 euro su 29,00) va alla distribuzione, il 12% (3,61 euro) sono profitti del marchio e l’8% (2,19 euro) sono i costi della logistica e trasporto. Il rimanente 1,20 euro va all’intermediazione.

Se questa è la catena del valore non possiamo pensare di migliorare i salari e le condizioni di lavoro in Bangladesh agendo sindacalmente solo in fabbrica, dove ci si ripartisce tra lavoratori e proprietari solo 1,33 euro sull’intero valore della t-shirt venduta (il 4,6%).

Quindi che cosa si può fare?
È evidente che alle forme tradizionali di rappresentanza e azione sindacale nei luoghi di produzione deve affiancarsi una capacità di coinvolgimento dei lavoratori lungo tutta la catena del valore e un’azione di pressione verso le imprese che detengono il marchio e gestiscono la catena logistica e di distribuzione commerciale (che rappresentano insieme l’80% della catena del valore).

Una prospettiva che assume un valore particolare con l’aumento della vendita per corrispondenza…
Esatto. Ci troviamo nel pieno di un ulteriore cambio di paradigma nel modo di consumare attraverso l’e-commerce. Questo cambiamento di paradigma favorito dalla digitalizzazione dell’economia, descritto dagli americani come il passaggio “da Walmart ad Amazon”, sposta il baricentro del conflitto sociale dai centri commerciali ai magazzini della logistica, cambiando le cose in peggio. Come dimostra l’ultimo film di Ken Loach, “Sorry we missed you” che descrive lo stravolgimento dell’esistenza di una famiglia costretta a fare i conti con le condizioni di lavoro nella logistica. Una narrazione rigorosa e realista che ci colpisce come un pugno allo stomaco e ci esorta a trovare soluzioni per un lavoro degno dell’essere umano.

 

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